di Novella Benedetti.
Federica Tucci è avvocata civilista, da tre anni presidente dell’associazione Fior di Loto, che si occupa di violenza domestica; fa anche parte del Comitato Pari Opportunità dell’Ordine degli Avvocati di Bergamo. Abbiamo parlato di donne, uomini, relazioni: ecco l’intervista.
Come associazione, qual è il contesto in cui operate?
Gazzaniga è un piccolo paese della provincia bergamasca, collocato circa a metà della Valseriana, una valle montana caratterizzata da un retaggio culturale piuttosto tradizionalista. La donna che denuncia e che si lamenta viene tacciata di essere quella che non tollera e che è contro il sistema.
Questo a livello trasversale o vedi differenze generazionali?
Faccio parte anche di AIAF (Associazione Italiana degli Avvocati per la Famiglia e per i Minori). Con loro lavoriamo in particolare con terze, quarte, quinte superiori. Quello che abbiamo notato è il cambiamento di percezione rispetto alla violenza domestica. Le nuove generazioni hanno un livello di tolleranza altissimo del controllo. Ritengono opportuno essere controllati, non solo dai familiari ma anche dal fidanzatino o fidanzatina. Questo vale per entrambi, ragazzi e ragazze. Hanno invece una visione molto trasversale sui ruoli in famiglia: i papà che si occupano della cura sono sdoganatissimi. In parallelo però è altrettanto accettato che le donne vengano pagate meno, o che abbiano ruoli sociali meno rilevanti.
In questo contesto, ci sono donne che denunciano, e chi sono?
Noi accogliamo donne che siano maggiorenni, ma ci capita dalla ragazza di 20 anni alla signora di 70; non c’è una vittima standard.
Una volta che vengono da voi e denunciano cosa accade?
Venire da noi o denunciare sono due cose diverse. La nostra è un’associazione di volontarie, non siamo un centro antiviolenza; la legge regionale chiede che per diventare centro antiviolenza ci si comporti un po’ come un “pronto soccorso”: all’accoglienza dovremmo compilare una scheda e poi condividerla con la regione. Noi preferiamo portare avanti i principi del riserbo più totale sulle donne. La donna ci dice quale percorso vuole intraprendere ed in base alla sua scelta noi ci adattiamo.
E per quelle che denunciano, cosa succede dopo?
La denuncia può seguire molteplici percorsi; ci sono quelle situazioni in cui prende la giusta piega ed andiamo alla condanna, che è un riconoscimento perché finalmente la donna viene creduta. Ci sono poi tutte quelle situazioni in cui l’ambivalenza è prevalente.
In che senso ambivalenza?
Subire un furto con scippo, o l’estraneo che esercita violenza nei tuoi confronti ti consentono di avere una reazione rabbiosa. Avere un sentimento che sia sempre lo stesso per la persona che hai scelto ti affianchi nella vita è difficile. Questo anche per come funziona il ciclo della violenza, ovvero: escalation; episodio forte, di solito di violenza fisica; fase della luna di miele - e quindi abbassamento della tensione, e poi ripresa. È un circolo. La fase della luna di miele è quella che frega tutte le donne.
Questo cosa comporta?
In questa dinamica ci sono una serie di simmetrie che vengono esercitate. Più elevato il numero di simmetrie più il sistema entra in confusione nell’identificare la violenza e viene tutto spostato sul conflitto.
Che differenza c’è?
Dal punto di vista della giurisprudenza la violenza si ha quando c’è un abuso di posizione dominante dell’uno sull’altra. Il conflitto invece è inteso come paritario. La lettura del conflitto però spesso non è adeguata; per la mia esperienza il nodo è questo.
Gli strumenti quindi ci sono, è una questione di formazione di chi si occupa del tema?
In tutte le situazioni c’è un’area nera che è il cuore del problema; poi c’è un’area bianca che è la cornice esterna. E poi c’è il grigio che è sfumato da chiaro a scuro. Quest’area è di più difficile lettura. Il nero lo capiscono tutti, non bisogna essere dei fenomeni per leggere quella che ti arriva con la faccia gonfia di botte. Anche il bianco lo leggono tutti. Il problema sono i grigi.
Cosa si può fare?
Chi svolge le indagini dovrebbe avere il tempo e la pazienza di ascoltare in un certo modo, con certe caratteristiche, prestando certe attenzioni, vedendo le due persone insieme su aspetti interattivi, cercando di capire anche le questioni dei figli che spesso vengono triangolati e strumentalizzati. In queste zone grigie ci vorrebbero tante risorse, tanta formazione, e anche un cambiamento culturale. Le istituzioni che più frequentemente vengono a contatto con le donne maltrattate sono radicalmente maschili: il mondo giudiziario, il mondo medico, il mondo delle forze dell’ordine. Sono tutti appannaggi maschili quindi hanno dei meccanismi, e uscirne non è semplice.
La soluzione?
Solo la prevenzione primaria – il cambiamento culturale. Le donne che subiscono violenza hanno in qualche modo una certa assonanza con questo tipo di relazione. Devono averla vissuta anche nell’infanzia, in qualche modo appartiene loro. Se tu cresci libera e stimata è molto più difficile cadere nella logica della violenza; per questo la salvezza delle bambine la fanno i papà. Un papà che sa valorizzare la sua bambina, che le dà stima e riconoscimento la porterà nel mondo molto più sicura di sé.
A livello culturale, come vedi l’uomo su questa questione?
L’aspetto maschile si sta tenendo in considerazione da pochissimo tempo. La legge sul codice rosso lo porta per la prima volta dentro il processo, con percorsi di natura psicologica. Questi percorsi esistono più o meno da una decina d’anni, a fronte dei 30-40 anni di cui si parla di questioni femminili dentro la violenza.
E la donna?
La questione delle donne è speculare, perché la cultura patriarcale è pervasiva e va a prendere la società in tutte le sue categorie. Il lavoro grosso da fare è sul riconoscimento della violenza.
Un esempio?
La violenza sessuale all’interno del matrimonio non viene quasi mai riconosciuta. A domanda diretta – tuo marito ti ha mai stuprata? - la donna risponderà di no. A domanda indiretta – ti è mai capitato di avere rapporti che non desideravi o che i rapporti si svolgessero in un modo che tu non desideravi? - il no diventa automaticamente un sì.
E quindi si torna all’ambivalenza.
Sì: arriverò a fare affermazioni contraddittorie, faticherò a ricordare gli episodi. Ed è lì che si insinua il dubbio del conflitto. Ci sono gli esempi classici, di quelle donne che vengono nell’emergenza più nera e poi spariscono una settimana perché lui ha portato un mazzo di fiori. Questo se letto nella dinamica della violenza assume un significato – se letto in una dinamica diversa allora cambia. Ci sono le difese che sostengono: vi abbiamo visti al ristorante… - quando c’è ampia giurisprudenza che riconosce come proprio le fasi alterne siano a sostegno di una situazione di violenza domestica, perché è il ciclo della violenza funziona così.
scritto da Novella Benedetti, pubblicato in Unimondo del 1 aprile 2021
segnalato da Alessandro Bruni