di Alessandro Bruni.
Premessa. In psicologia con il termine sentimento (derivato dal latino sentire, percepire con i sensi) si intende uno stato d'animo ovvero una condizione cognitivo-affettiva che dura più a lungo delle emozioni e che presenta una minore incisività rispetto alle passioni. Per sentimento genericamente si indica ogni forma di affetto: sia quella soggettiva, cioè riguardante l'interiorità della propria individuale affettività, sia quella rivolta al mondo esterno. I filosofi greci antichi non distinguevano tra sentimento e passione, mentre nella filosofia moderna con Cartesio il sentimento viene incluso tra le passioni definendolo come "passione spirituale", nel senso che esso non ha a che fare con la materialità del corpo ma è un moto dell'anima che diviene oggetto passivo di una forza che la sovrasta. Oggi i sentimenti umani sono diversi (almeno un centinaio nelle culture occidentali). Il loro numero, la loro specificità e la loro intensità individuale e sociale sono determinati da fattori culturali. Prenderemo in considerazione i principali cercando di esprimerli nelle valutazioni individuali e in quelle sociali della contemporaneità. (a.b.)
Il mistero dell'empatia tra psicologia e neurologia
L'empatia è la capacità di comprendere lo stato d'animo altrui, ovvero di "mettersi nei panni dell'altro". In campo medico il concetto è sempre stato ritenuto di carattere esclusivamente psicologico fino a quando un'equipe dell'Università di Parma ha scoperto l'esistenza dei neuroni specchio presenti nel cervello dell'uomo ed altri animali, che funzionano da organo biologico di funzioni empatiche. Empatia significa dunque entrare nei panni degli altri perché il nostro cervello si sintonizza con quello di chi ci sta intorno. Conoscere l'empatia come sentimento complesso biologico e psicologico è oggi fondamentale per costruire una relazione individuale e sociale.
I neuroni specchio, dunque, sono alla base dell’empatia, cioè della capacità di rapportarsi agli altri, di comprenderli, di solidarizzare con le loro sofferenze e le loro gioie. Nelle aree deputate ai movimenti, le aree motorie, la medesima attività neuronale si verifica sia in chi compie un gesto, per esempio afferra un bicchiere, sia in chi lo guarda. Per questo nell’osservatore si parla di neuroni specchio. A livello cerebrale, se ti guardo bere è in qualche modo come se bevessi anch’io, e se ti guardo guidare, è come se guidassi anch’io, e dunque non solo imparo quello che tu fai, ma capisco anche le tue intenzioni.
Per comprendere l'empatia sul piano psicologico è necessario studiare le relazioni analitiche che si generano nei luoghi dell'incontro o dello scontro - analitico. La proiezione di qualità dell’individuo su oggetti o persone esterne, dalla partecipazione totale dell’animismo, al politeismo, al monoteismo fino alla laicizzazione della società moderna in cui la religione sopravvive come scelta individuale.
Sul piano della salute poi, se pensiamo alla medicina narrativa, l'empatia assume un importante ruolo nella cura stessa. Tutti noi speriamo in qualcosa. Ma il malato spera più di ogni altro. E sono le parole il mezzo più importante per infondere speranza: parole empatiche, di conforto, fiducia, motivazione.
Oggi la scienza ci dice che le parole sono delle potenti frecce che colpiscono precisi bersagli nel cervello, e questi bersagli sono gli stessi dei farmaci che la medicina usa nella routine clinica. Le parole innescano gli stessi meccanismi dei farmaci, e in questo modo si trasformano da suoni e simboli astratti in vere e proprie armi che modificano il cervello e il corpo di chi soffre. È questo il concetto chiave che sta emergendo, e recenti scoperte lo dimostrano: le parole attivano le stesse vie biochimiche di farmaci come la morfina e l'aspirina. Oggi si è consapevoli dell'importanza empatica nell'evoluzione della malattia e della guarigione, testimoniando l'importanza delle suggestioni verbali positive per il loro potere di modificare il cervello e l'intero organismo.
Un esempio per chiarire: curare un bambino autistico richiede strategia, flessibilità, pazienza, intelligenza, coraggio. Occorre essere un po' psicologi, un po' terapeuti, un po' ingegneri della pedagogia e del comportamento. Ogni paziente rappresenta una sfida nuova, difficile. La preparazione specifica è necessaria, ma non basta. Occorre interagire con la famiglia, con la scuola, con i terapeuti. In queste condizioni terapeutiche è fondamentale creare un rapporto empatico con il paziente attraverso il quale si amplificano gli effetti dei farmaci oppure in taluni casi si il rapporto empatico si sostituisce al farmaco stesso.
scritto da Alessandro Bruni
Empatia buona e empatia cattiva sul piano religioso
di Gianluca Barbanotti, segretario esecutivo della Diaconia valdese.
La parola “empatia” è fra le parole positive più utilizzate in questi ultimi anni, soprattutto in ambito sociale, sanitario ed assistenziale. Non è, tuttavia, da escludere, che fra le cause del disagio che porta molti operatori al burnout, cioè ad uno stato di esaurimento psichico ed emotivo, ci possa essere un malinteso uso del concetto legato a questa parola. Nelle scuole per infermieri, per educatori, per operatori socio-assistenziali si propone spesso la relazione empatica come modello al quale ispirarsi per orientare correttamente la propria azione professionale.
La traduzione pop di questo concetto è che l’operatore deve coinvolgersi nell’altro, immedesimarsi nella sua situazione, entrare nella sofferenza dell’altro come se fosse la sua: solo mettersi nei panni dell’altro, abbandonare i propri panni per indossare quelli degli altri potrà consentire di stabilire una corretta relazione di aiuto con l’altro. Di questo tema si occupò già nel lontano 1915 Edith Stein, magistralmente sintetizzata da Annarosa Buttarelli nel contributo in Prendersi cura delle parole (Aut Aut, dicembre 2020, pp.98-105), facendo emergere i rischi della falsa empatia, che nella relazione con l’altro porta all’interpretazione più che allo scambio.
Di fronte ad un paziente che sta per subire un’amputazione, l’operatore può farsi la domanda: come mi sentirei se dovessi essere io a subire l’amputazione? Questa domanda, figlia dell’istanza di immedesimazione, porta ad interpretare quello che l’altro sente, non certo ad avere uno scambio con lui. L’azione dell’operatore, dettata da questa sua interpretazione della sofferenza e del disagio altrui, apre due ordini di problemi: l’esperienza è sempre e solo dell’operatore, senza nessun riconoscimento dell’altro, consolidando il culto dell’identità e rinforzando il proprio senso di onnipotenza; l’altra criticità è proprio il burnout, quando questo tipo di immedesimazione comporta la morte di parti di sé ogniqualvolta che c’è un distacco dall’altro, evento all’ordine del giorno nelle professioni di aiuto. Se mi immedesimo nel paziente che poi viene a mancare per conclusione del percorso, per scelta, per abbandono, brucio rapidamente la mia capacità di essere vicino alle persone.
La buona empatia non è un’interpretazione dell’altro, ma uno scambio che riconosce all’interlocutore la dignità di essere altro, di essere sconosciuto e quindi richiede lo sforzo dell’ascolto. Cercare di ascoltare, o forse meglio, “sentire” l’altro nella sua differenza da sé senza proiettare il proprio sentire sull’altro, modellando la propria crescita nell’ascolto senziente delle esperienze degli altri. Nella situazione richiamata la domanda dell’operatore è: quali sono i sentimenti che accompagneranno questo paziente nell’affrontare l’amputazione? Questo vuol dire aprire un percorso di ascolto, anche e soprattutto emotivo, che non impone all’altro le proprie paure e i propri vissuti, ma che invece contribuisce a costruire, allargare, implementare le sensibilità di entrambi i soggetti. L’empatia per dirla con Stein è «esperienza di una coscienza altra da noi…».
Da un soggetto, l’operatore, si passa a due soggetti: due soggetti che sono tali nella misura in cui si rendono conto del differente vissuto altrui. Se l’obiettivo è risentire una comunanza qualitativa dell’esperienza (per esempio la paura dell’handicap conseguente alla amputazione) è necessario avere sempre presente la differenza fra colui che la vive in modo originario e, l’operatore, che ne è sensibilizzato in seconda battuta. L’empatia è l’esperienza dell’essere per differenze e non per identità. Una corretta interpretazione dell’empatia dovrebbe consentire di avere accesso all’esperienza del “sentire” senza essere invasi dal patire altrui; rinunciare ad un autolesionistico senso di onnipotenza per accedere ad un passivo e sano ascolto emotivo.
Un interessante episodio che rappresenta simmetricamente la buona e la cattiva empatia lo ritroviamo quando un lebbroso, persona emarginata e nel bisogno, viene incontro a Gesù e gli chiede di essere guarito (Marco 1.40-45). Gesù non va a cercarlo, stanarlo nel suo bisogno per poterlo aiutare, ma si mette in ascolto dell’altro e il testo specifica che è “mosso a pietà”. Si smuovono le emozioni e con loro una relazione profonda, ma quello che ci aiuta a capire la “buona empatia” è la sequenza delle azioni di Gesù: stese la mano, lo toccò…, disse…, lo ammonì… , lo congedò.
Gesù “sente” la sofferenza del lebbroso, la sente con tutto i suoi sensi, come se ne mangiasse le interiora se vogliamo dar credito all’etimologia del verbo utilizzato: la sofferenza diventa una parte di sé, ma lui non diventa il lebbroso, non si identifica con il lebbroso, sente la sofferenza, che è solo del lebbroso, non può essere la sua, tanto è vero che deve stendere la mano, allungarsi, misurare la distanza che c’è fra lui e il lebbroso, e deve toccarlo. Non avrebbe avuto bisogno di avvicinarsi a lui, non avrebbe avuto necessità di toccarlo se ci fosse stata piena immedesimazione. Invece, la necessità di misurare la distanza e di instaurare un rapporto, una relazione, gli consentono di parlare e questo produce il miracolo del cambiamento. Il riconoscimento della distanza fra sé e l’altro è la vera empatia che consente di riconoscere l’altro e di non sopraffarlo.
L’apogeo di questo rapporto che riconosce l’autonomia dell’altro e non se ne appropria arriva con il congedo: la vita di entrambi deve continuare, ognuno per la propria strada, ognuno avendo imparato qualcosa dell’altro. L’ironia di questo racconto è nell’inversione finale quando il lebbroso diventa l’esempio della “cattiva empatia”: malgrado il divieto di Gesù lui parte a diffondere l’Evangelo! Il lebbroso pensa di sapere quello che Gesù vuole e lo pratica, pensa che Gesù voglia che si predichi e lui predica, ma lui non ha ascoltato Gesù che gli aveva detto esplicitamente di tacere: ha pensato che lui e Gesù ormai erano la stessa cosa e l’ascolto era superfluo e ha deciso lui anche per l’altro. Ascoltare, sentire anche emotivamente l’altro, vuol dire riconoscere la dignità dell’interlocutore e con questo aprirsi al mondo dei suoi diritti.
scritto da Gianluca Barbanotti, pubblicato in Confronti del 7 maggio 2021
segnalato da Alessandro Bruni