di Davide Brullo.
Mi hanno telefonato alle due di notte, il sussurro pareva una rasoiata, “la mamma…”, no, è la nonna, “beh, la nonna…”. Corro in ospedale. Di notte l’ospedale sembra un immenso mammut: fasci di luce come zanne. Secondo piano, primo corridoio a destra, stanza. La nonna ha gli occhi spiritati. Appena mi vede si alza, si strappa per l’ennesima volta le flebo, che pendono come tentacoli, voglio andare a casa, mi fa. Le dico, stai tranquilla. Comincia a urlare. Fortissimo. “Sei un puttaniere di merda, mi fotti i soldi e ti fotti pure queste qui, dove cazzo mi hai portato, sei un bastardo…”. Le urla rimbombano per il reparto, dove il sonno è subacqueo, la loro eco resta in me per giorni, sui vestiti. L’infermiera – mi sembra giovanissima e di ceramica – mi guarda, incerta. Certo, faccio. La tengo ferma, ma la nonna si dimena con indiavolata energia. Tutta muscoli, nervi, ira, “sei un puttaniere… mi fai schifo… io ti sputo in faccia… mi hai fottuto tutti i soldi…”. Tutta questa verità in tuoni. La faccia della nonna è deformata, sfondata dalla rabbia. Infine riescono a sedarla.
Chi sprofonda nella demenza senile non ha schermi né schemi, procede per eccessi, senza istituire confini tra desiderio e atto. Spesso, in una piazza, sotto l’albero, in un’aiuola, la nonna si tirava su la gonna e faceva quel che doveva. Qualcuno s’indigna, alcuni chiacchierano, certi ridono. “Se ne prenda cura…”, mi dicono. Il potere si misura dalla morte; se sei un poveraccio muori come un cane. Solo i ricchi possono invecchiare. Il resto è questo: tutti smisuratamente tonici, tra palestra, farmacia, estasi estetica, la medicina sacralizzata, la paura delle rughe, del rigore della fine. Infine, se sei un poveraccio, invecchi in una pozza di merda. Più di una volta ho nettato il culo ai nonni, ho comprato valanghe di pannoloni, pulito zolle di merda in mezzo alla casa. Prima è svanito il nonno. Un giorno, sulla poltrona, mira la nonna, la moglie, e mi fa, a bassa voce, “quella chi è?, la donna delle pulizie?”. Era nato in Francia da genitori siciliani. Magro, occhi chiari, naso aquilino, aveva modi aristocratici e distanti. Era un uomo gentile. Durante la Seconda guerra, dopo l’armistizio, era stato arrestato dai tedeschi in Grecia: l’hanno portato ad Amburgo, nello stesso campo dove fu recluso il fratello di André Malraux. Magari si sono conosciuti. Il nonno ha continuato a parlare francese per tutta la vita, ascoltava la radio che trasmetteva da Parigi. Si perdeva spesso; i carabinieri lo riportavano a casa. È morto in poco tempo, dicendo grazie: la demenza lo aveva reso celeste. L’assegno di invalidità – pressappoco 500 euro – è arrivato dopo la morte.
Energica, passionale, violenta, la nonna, invece, era ingestibile. Il medico la faceva semplice. Ha una casa? Bene: la affitti e la mandi in una casa di cura. Per invecchiare devi essere ricco e non inciampare in alcuna sfiga. I miei nonni non avevano nessuno: figlio morto, niente amici, il nipote in disastro come parente residuo, un frantume. Pochi soldi. Una casa per anziani concessa dal Comune, dopo lunga lista di attesa, costa intorno ai 1500 euro; una casa con assistenza, privata, arriva facilmente a 3mila. Quello degli anziani è un business remunerativo.
Finché è stata in forze, mia nonna cacciava le badanti a calci, letteralmente; tutti i giorni, più volte, andava a comprare il pane, a ritirare i soldi in banca – certa che qualcuno glieli avesse rubati –, a rifornirsi di vino. Nascondeva bottiglie di vino, in plastica, ovunque. A volte beveva fino a svenire, rotolando nel vomito. Il medico che mi faceva i conti in tasca e che trattava un essere umano come uno scarto mi faceva girare le palle. Lo mandai a cagare. Nelle case di riposo ci sono stato: pie istituzioni dove i vecchi vivono in stato sonnambulico, allevamento immane di carne morente. D’altronde, che fare? Viviamo, tutti, nell’idolatria dell’individualità, beati dei nostri successi, un circo di lamenti, esagonali, edenici, bellissimi, stolti, soli. Le grandi famiglie dove ciascuno si occupava dell’altro – fitti di zie, zii, cugini, parenti e dunque di nonni ‘matti’ che fiorivano in casa come la primavera – non esistono più; la famiglia è un bunker, trappola per topi di relazioni imbarazzate da bassi doveri e piaceri facili.
Che cavolo te ne fai di un vecchio, ornamento televisivo, cartolina dei buoni sentimenti, da ostentare nel giorno di festa, di fatto inutile orpello di carne, fantasioso fastidio, tripudio di carne indecente, demente? I vecchi, fallati, sono un rifiuto, ti fissano con feroce innocenza. Infine, mia nonna parlava con uomini immaginari che passeggiavano lungo il soffitto. Diceva di volermi bene. Non riconosceva altri. Crescevano grotte nel mio corpo. È morta nel 2018 – tanto indimenticabile che passo così poco al cimitero.
Recentemente il “New Yorker” ha dedicato un lungo articolo alla solitudine dei vecchi, falciati dalle più vaste malattie mentali. L’articolo, firmato da Katie Engelhart, giornalista e autrice di The Inevitable. Dispatches on the Right to Die, s’intitola What Robots Can – and Can’t – do for the Old and Lonely. Il pezzo parte da una considerazione sociale che non sorprende – “Nel 2017 Vivek Murthy, Surgeon General of the United States, ha dichiarato che la solitudine è un’‘epidemia’ tra gli americani di ogni età. Questo avvertimento è ispirato a ricerche mediche che dimostrano i danni inflitti al corpo dall’isolamento sociale e dalla solitudine” –, è irritante. Fare di sé un’isola non è un male; la solitudine è necessaria non tanto per investigarsi – restiamo un sommo inenarrabile vuoto – ma per sondare il mondo, mondato di umani. Il punto, però, è altro.
L’isolamento degli anziani, confuso a diverse forme di demenza, sommato alla solitudine inasprita dal Covid, ha creato labirinti, sfaceli. L’esempio americano – dove esistono diversi aging departments –, pallida risposta alla questione totale, è agghiacciante: nella Contea di Cattaraugus, New York, 83mila abitanti circa, “sono stati distribuiti oltre mille cani e gatti robot”. In assenza di parenti umani o di assistenti, gli anziani vengono dotati di bestie robotizzate. Il pregio? Non sporcano, non richiedono attenzioni, si possono spegnere. Pare che la tecnica abbia fatto passi straordinari: i robot imitano quasi alla perfezione le bestie. E sono più intelligenti. Ad esempio, “possono monitorare l’ascesa dell’Alzheimer”. Le bestie meccaniche si chiamano “Joy for All”, sono prodotte da un’azienda, Ageless Innovation, che esiste dal 2015 ed è uno spin off di Hasbro la grande azienda statunitense di giocattoli. “Durante la pandemia, gli aging departments di ventuno stati hanno distribuito circa ventimila animali ‘Joy for All’ per aiutare le persone anziane sole”. Chi non ama l’animale meccanico può usufruire di un robot, ElliQ, piuttosto inquietante, ma che può fare diverse cose, perfino conversare. “Il mio ultimo marito era una specie di robot. Meno bravo di questo”, ha detto Deanna, tra gli anziani intervistati dalla giornalista. Che cosa vuol dire umano, d’altronde? Nell’opificio meccanico americano sembra che i robot siano più umani degli uomini: a patto che accettiamo di assegnare all’aggettivo valori paradisiaci (“equo, affabile, pieno di comprensione, aperto a sentimenti di pietà”, così la Treccani), cioè sonori, astratti, fasulli. Infine, il desiderio è robotizzare i vecchi: imbambolati, fotogenici, calco grottesco di un dio ebete.
Sembra che gli anziani si confidino con i robot più che con i propri simili: ogni vergogna è vinta al cospetto della macchina. Alcuni filosofi s’indignano, “è intrinsecamente indecente offrire la compagnia di un robot come surrogato all’affetto umano”, eppure il corpo del vecchio, emblema arcano e sacro, “simbolo del principio occulto, come il palazzo sacro o d’argento, nella Cabbala” (Juan Eduardo Cirlot), è lì, immobile, vivo, pozzo che ci vomita addosso le nostre astruse ambizioni, perdute, un monito. Ne possiamo fare tutto tranne che l’oggetto di trite chiacchiere sui diritti e i doveri, dacché un mondo che rifiuta il vecchio, che aliena l’alienato, che mostrifica la morte, è orrendo. La maceria morale converge sull’altare di quel corpo che si sfa, decrepito, che non si addomestica, che ti urla addosso. Dov’è l’uomo che ha abitato quel corpo?
La nonna, al principio della demenza, metteva il portafogli nel frigorifero e diceva “tapparella” per dire “caffè”. Una vecchia americana, Carolyn, ha chiamato la sua bestia robotica “Sylvia Plath”: a chi le chiede se non ha paura di dimenticare la sua vita, calandosi come un sommozzatore negli abissi della demenza, risponde, “No. Dimenticare è bello”. Mio nonno aveva dimenticato il figlio, suicida. Ma ciò non elimina il suicidio; ciò non elimina il figlio, che si arrampica lungo la faringe del padre; ciò non salva il vecchio e non redime chi lo guarda.
scritto da Davide Brullo, pubblicato in L'intellettuale Dissidente del 5 giugno 2021
segnalato da Alessandro Bruni