di Alessandro Bruni. Amministratore del blog e socio di Macondo.
Abbiamo visto come il volontariato senza una dimensione politica e culturale rischi di avere poche prospettive fattuali nella società. Affrontiamo ora la dimensione etica del volontariato che a ben pensare parrebbe la prospettiva più ovvia e quella più naturale dato che chi si rivolge ad una associazione di volontariato ha certamente in partenza una dimensione etica da raggiungere. In effetti il socio volontario può avere mille motivazioni psicologiche che spingono verso un desiderio di solidarietà, di servizio, di comunione.
A ben vedere la dimensione etica del volontario poggia su due pilastri, l'uno intimamente personale e l'altro di visibilità collettiva, ovvero di spinta verso una visibilità pubblica. I due pilasti sono di fatto interconnessi e entrambi poggiano sulla stessa base e si sorreggono crescendo in stretta relazione.
La questione cruciale dell'assunto etico è la sua iniziale debolezza e il pericolo che con il passare del tempo nell'operare questa si affievolisca risultando come modus operandi fattuale in cui l'iniziale spinta utopica si è affievolita (il burnout del volontario). Anche se il primo assunto personale fosse incerto, e questo è normale, fisiologico, c'è forte speranza che si accresca in determinazione e operatività nel momento in cui si entra in una realtà associativa di persone miranti ad una realizzazione personale simile. Il sentirsi parte di una comunità ideale rafforza i propri ideali e permette loro di trovare realizzazione.
Il secondo assunto, che invece tende al logorio del burnout tipico di tutte le attività di cura, è invece subdolo e induce all'indifferenza più legata agli aspetti formali piuttosto che all'avventura sempre mutevole e rivoluzionaria che provoca l'incontro e la relazione di prossimità con l'indigente. Come diceva Maria Stoppiglia a Gaetano Farinelli (Attraversare il deserto. Il cammino di una donna alla ricerca della propria autonomia. Macondolibri, 2001): lo sconforto derivante dalle delusioni e dalle ingratitudini che fanno apprendere che “i poveri non ci sono per esaltare la nostra bontà, ma perché è grande l'ingiustizia nel mondo, cui i poveri a volte fanno fronte con un'umanità che resta inviolata, a volte con una furia che distrugge anche il bene che ricevono”. Esistono, dunque, due fragilità quella dell'indigente e quella del volontario di cui bisogna tenere debito conto.
Per i due assunti descritti non c'è una ricetta salvifica, ma qualche indicazione di prassi va data: c'è da chiarire che la serietà e la coerenza etica si apprendono per contagio diretto; non c'è niente di più fecondo della comunanza di vita con qualche persona che, senza pose esibizionistiche né atteggiamenti leaderistici, testimonia nella quotidianità dell'impegno il suo essere per gli altri.
Spesso questo passaggio avviene per l'incontro di personaggi profetici (è questa la via maggiormente praticata, basti pensare a don Ciotti, don Mazzi, don Stoppiglia, Dolci, Langer, Capitini, e tanti altri). Attraverso figure come queste la costanza, la trasparenza, l'efficacia duratura del proprio agire si possono guadagnare con pazienza verso i propri errori con la mente fissa verso gli obiettivi prescelti: nella comunità associativa il volontario si trova a vivere nel solco con altri e trovare conferme al proprio pensare e al proprio agire.
Per intenderci questo significa che non ha senso che il volontario si prefigga la perseveranza nel suo impegno se ai suoi occhi si tratta solo di un appuntamento settimanale da rispettare, senza rimettere in discussione tutto il suo modo di essere nel mondo: non si può fare il volontario a ore, senza rivedere il proprio modo di essere nel mondo. La fedeltà alla propria identità, per quanto segnata da inevitabili ritardi e incoerenze, sarà possibile se il volontario perderà le caratteristiche un po' esotiche di scelta di vita eccezionale e diverrà il volto quotidiano del cittadino adulto. Questo passaggio, travagliato, verso uno stile di vita mite, equo, conviviale sarà meno difficile se periodicamente ci interroghiamo su quali siano le nostre coordinate di fondo. La fatica del camminare molto spesso finisce col lasciare indietro l'anima per cui è bene ogni tanto fermarsi e criticamente fare una analisi di realtà di quel che si sta facendo, sia individualmente che collettivamente nella associazione di volontariato.
L'etica della solidarietà non può essere l'atteggiamento di pochi, né una delega ad alcuni. È una regola per tutti. Se siamo cittadini e membri di una comunità dobbiamo essere tutti “volontari”. Il nostro sogno è che la nostra vita non sia fatta di gesti eccezionali e straordinari, ma atteggiamenti normali ed autentici (L. Ciotti, Chi ha paura delle mele marce? Gruppo Abele, 1998).
Ogni persona ha, più o meno consapevolmente, una visione del mondo (religiosa, atea, agnostica ...). Da ciascuna di queste filosofie possono scaturire conseguenze pratiche sia di tipo rinunciatario e conservatrici sia di tipo costruttivo e progressiste. Due visioni che vanno contemperate perché ciascuno ripensi alle proprie radici etiche di fondo.
L'etica del volontariato nell'ottica conservatrice liberista tende a costruire assunti di solidarietà basati sull'intervento individualista che si esprime collettivamente in una azione filantropica dove sostanzialmente si offre solidarietà al posto della giustizia, mentre l'etica del volontariato nell'ottica progressista tende al prendersi cura direttamente personale e collettiva senza intermediari (l'I care di don Milani) di chi ha bisogno, ovvero sostanzialmente si offre solidarietà in attesa e in vista della giustizia.
Due visioni che se non estremizzate possono all'atto pratico convivere e compensarsi, a patto che le due etiche di fondo sul piano personale non vengano confuse e restino distinte. Infatti, la confusione etica di obiettivi interiori determina nei volontari insoddisfazione e conseguentemente un approccio che a lungo andare diviene di indifferenza o di routine come l'obolo anonimo di un euro dato fuori dal supermercato senza caricarsi dei problemi di chi tende la mano, o l'essere convinti di vivere una vita eccezionale per aver offerto alla medesima persona la scelta di alimenti dal nostro carrello al posto di denaro. In entrambi i casi non si è affrontato il problema dell'emarginato in termini di giustizia, non ci siamo fatti carico della cura della persona, ma solo pacificato in modo eticamente diverso il nostro senso di colpa.
Giunti al termine di questi tre post conseguenti dedicati al volontariato possiamo concludere che la coscienza politica ed etica dell'impegno sociale va vissuta quotidianamente in scelte tecniche precise che esigono competenze specifiche. É necessario che il volontario si ponga in un cammino di continua formazione che lo renda più esperto e in grado di rispondere globalmente al prendersi cura dell'altro. Sinteticamente questo significa acquisire:
- una competenza psicologica di noi stessi e dell'altro per rinnovare le motivazioni e le relazioni personali;
- una competenza metodologica verso il lavorare per progetti in equipe con pluralità di strumenti;
- una competenza sociologica per comprendere il contesto sociale dell'altro;
- una competenza antropologico-culturale per comprendere il proprio territorio e quello dell'altro.
Troppo difficile? No, se si agisce entro una associazione che collettivamente forma e si prende cura dei propri soci come la risorsa più importante per diventare tutti cittadini del mondo più consapevoli.
scritto da Alessandro Bruni, sintesi ed elaborazione tratta da:
-
Augusto Cavadi, Volontariato in crisi, il pozzo di Giacobbe, 2003
con inserti di elaborazione tratti da:
- Giuseppe Stoppiglia, Camminando sul confine, Macondo libri. 2004
- Francesca Spano, Con rigore e passione, Claudiana, 2010
- David Sloan Wilson, L'altruismo, Bollati Boringhieri, 2015
- Franco Riva, Ripensare la solidarietà, Diabasis, 2009
- Livio Ferrari, Testimoni di prossimità, Formarsi al volontariato, Edizioni Paoline, 2020
per un approfondimento si legga il dettagliato saggio sulla solidarietà scritto da Giovanni Realdi