di Alessandro Bruni. Amministratore del blog e socio di Macondo.
sintesi tratta da intervista di Anna Spena a Giulio Sensi, comunicatore sociale del Centro di ricerca Maria Eletta Martini, pubblicata in Vita del 9 luglio 2021.
Il volontariato è diventato un fattore sociale irrinunciabile. E sempre più lo sarà in futuro. Ma allo stesso tempo ha cambiato modalità e modelli di partecipazione. Cosa sarebbe successo se dall’inizio della pandemia non ci fosse stato il volontariato? A volte conviene rimanere senza risposte perché in questo ultimo anno e mezzo il volontariato è andato più veloce delle soluzioni politiche per rispondere all’emergenza e soprattutto ha lasciato il passo ai giovani. «La dematerializzazizone dell’aiuto ha avuto un ruolo fondamentale e il digitale ha dato una grande accelerata».
Innanzitutto il volontariato ha “cambiato lingua” e la comunicazione istituzionale è stata superata da modalità dirette di profilazione per intercettare volontari tra chi non ha mai pensato di diventarlo: le parole volontario o sociale sono state così bandite. I nuovi profili della ricerca sono invece “cercasi delusi”; “cercasi egoisti”; “cercasi insicuri” e i ruoli da ricoprire vanno dall’“abbracciatore telefonico” allo “scienziato green” fino al “trafficante di felicità”. Felicità, ad esempio, è una parola chiave perché il volontariato — e non è un luogo comune — fa bene prima di tutto a chi lo fa e quindi ha risposto a quel bisogno delle persone di sentirsi non più ai margini ma parte della comunità.
Ieri, per una riflessione sull'oggi
sintesi tratta da Augusto Cavadi, Volontariato in crisi? Il pozzo di Giacobbe, 2003
La prospettiva politica del volontariato, nel senso bello, originario, appassionante è prospettiva centrata sulla “polis” e sul suo sviluppo complessivo. Se il volontario guarda ai problemi uno per uno e non si chiede quali siano i contesti generali da cui derivano, si condanna alla miopia. Il volontariato può non scadere ad assistenzialismo che mortifica e paralizza le forze dei suoi destinatari solo se si sforza di coltivare la prospettiva politica, e non può farlo se non coltiva, simultaneamente, la prospettiva culturale ed etica.
Questo significa, essenzialmente due cose. La prima è che il volontariato deve andare oltre la solidarietà “corta”, immediata, diretta: deve farsi lungimirante ed attivare iniziative che, nel lungo periodo, modifichino i meccanismi strutturali, permanenti, che producono e riproducono il disagio. Deve rifiutarsi di essere “l'angolo buono di una società cattiva” e non sentirsi “soddisfatto fintanto che i problemi dell'emarginazione e della povertà non diventano problemi della società.
Acquisire uno sguardo politico significa assumere un atteggiamento di interlocuzione critica nei confronti delle istituzioni: non isolarsi da esse illudendosi di poterle supplire, ma stimolarle a funzionare al meglio per prevenire per quanto possibile i disagi. La dimensione politica del volontariato si realizza cercando di individuare e superare le cause, i motivi che generano e rigenerano quotidianamente le ingiustizie, le sofferenze indebite, il disagio esistenziale, l'emarginazione, la povertà, il sopruso che rendono disumana la convivenza dei cittadini più deboli, oppressi nella loro dignità e libertà.
Il volontario non è dunque un barelliere della storia, non è una dama di carità, ma un cittadino solidale che coniuga la carità immediata con la giustizia strutturale. Per fare un solo esempio, se il volontario moderno possiede e vive queste due dimensioni, quando incontra un barbone o un terzo-mondiale, gli offre, nell'immediato, ogni aiuto possibile che corrisponda alle sue attese, ma contestualmente impegna la sua associazione a stabilire contatti con l'assessore competente, per conoscere che cosa il comune intenda fare su questo problema nel piano degli interventi; interroga gli amministratori sulle dimensioni del fenomeno, domanda se è stata pensata e programmata una politica sociale o meno, ecc.
Egli vuole, come cittadino, comprendere le cause di quel vagare senza accoglienza e superarla razionalmente, non nella limitatezza dell'obolo “una tantum”, pubblico o privato che sia, con un intervento standardizzato simile a un cerotto. Testimonia dunque personalmente la sua disponibilità e richiede contemporaneamente il dovuto contributo alla soluzione del caso da parte delle istituzioni. Il volontario deve essere pronto anche a sperimentare la durezza del conflitto.
L'unica speranza è la costituzione di organizzazioni associative mosse da ragioni di giustizia umana e sociale, che lottino per l'affermazione dei diritti di chi non è in grado di autodifendersi. Ma ciò equivale a sostenere (esponendosi all'accusa di essere poco “puri” e molto “politicizzati”) che il volontariato deve schierarsi. Non può rimanere neutrale.
Conclusione
E' necessario che il volontariato si riscopra come soggetto politico, non semplicemente caritativo, e soprattutto non persegua la strada della dematerializzazione pensando che le parole siano sufficienti. Il dire deve sempre precedere il fare, ma quando il dire si riduce ad essere l'unica attività espressa significa che si sta abbandonando la vera vocazione del volontariato per convogliare verso un filantropismo asettico, lontano dall'impegno materiale del confronto diretto con chi ha bisogno, divenendo sempre più espressione non di prossimità, ma di egemonizzazione dell'egoismo dell'atto caritatevole e non atto concreto e personale di esecuzione di un diritto di chi non ha.
Il volontario deve materialmente essere pluralista, non egemonizzato, autonomo, non collaterale, liberatorio, non semplicemente caritativo, ma protagonista materialmente attivo, non residuale da portafoglio o da visiting professor di luoghi di sofferenza nazionali e internazionali. Politicamente è necessario che si impegni perché sia ascoltato nella programmazione locale, nazionale, internazionale, nell'affermazione di un diritto dell'emarginato.
L'azione strategica e operativa delle associazioni di volontariato non può che nascere primariamente in una dimensione territoriale perché è solo in questo ambito che può concretizzare la formazione bilaterale di comunità del prendersi cura. Solo successivamente l'azione si può aprire ad una dimensione nazionale, ovvero quando l'associazione ha un numero tanto elevato di soci attivi da poter delegare le attività in gruppi di intervento funzionali per settore. E, solo successivamente ancora, potrà esprimersi a livello internazionale, ovvero quando ha acquisito un patrimonio finanziario e di risorse umane tanto cospicuo da divenire organizzatore in ambiti più complessi. Sorprendentemente una parte non piccola di associazioni di volontariato si dedica all'aiuto internazionale, mostrando miopia verso le ingiustizie locali. Una deformazione, una deriva, che mina il rapporto tra volontario e soggetti deboli territoriali, che costruisce associazioni conservative più legate alla raccolta di fondi o alla costruzione del pensiero solidale senza praticarlo.
La prospettiva strategica politica del volontariato non può, quindi, prescindere dalla territorialità, che non è localismo, ma terreno di solidarietà diretta e non terzista, pena il rischio di divenire pura espressione culturale ed egemonica con fine di garantire solo la propria esistenza.
scritto da Alessandro Bruni, sintesi ed elaborazione tratta da:
- Augusto Cavadi, Volontariato in crisi, il pozzo di Giacobbe, 2003
con inserti di elaborazione tratti da:
- Giuseppe Stoppiglia, Camminando sul confine, Macondo libri. 2004
- Francesca Spano, Con rigore e passione, Claudiana, 2010
- David Sloan Wilson, L'altruismo, Bollati Boringhieri, 2015
- Franco Riva, Ripensare la solidarietà, Diabasis, 2009
- Livio Ferrari, Testimoni di prossimità, Formarsi al volontariato, Edizioni Paoline, 2020
per un approfondimento si legga il dettagliato saggio sulla solidarietà scritto da Giovanni Realdi