di Marco Cattaneo. Giornalista e editorialista di Le Scienze e Mind.
Il mondo è concentrato da un anno e mezzo sull’evoluzione della pandemia da SARS-CoV-2 che, nonostante siano già state somministrate 2,5 miliardi di dosi di vaccini, continua a flagellare il pianeta con quasi 400.000 contagi e oltre 10.000 morti al giorno (tutti i dati sono relativi alla metà di giugno). E questo anno e mezzo ci ha fatti distrarre dal problema principale, quello che ormai da quasi mezzo secolo i climatologi hanno portato all’attenzione della politica e della società.
Quando mi chiedono dove sono gli effetti del cambiamento climatico, rispondo sempre di non chiederlo a me. Perché per me, animale metropolitano, un’estate un po’ più calda significa solo usare più aria condizionata. Bisogna chiederlo agli agricoltori.
L’ultima conferma l’ho avuta in una breve conversazione a giugno con Innocente Nardi, presidente del Consorzio di Tutela del Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore, a margine dell’incontro finale del festival Vitae Future. Quando gli ho chiesto come andassero le vigne, mi ha risposto che con il clima mite di questa primavera erano in ritardo di 15-20 giorni rispetto agli ultimi anni. «Allora tornerete a vendemmiare come una volta?», ho azzardato. E per tutta risposta mi sono sentito dire che quest’anno la vendemmia potrebbe ritardare fino quasi a fine settembre, ma quarant’anni fa «si vendemmiava anche ai Santi, a volte».
Se volete sapere del cambiamento climatico, chiedete agli agricoltori. Perché la festa di Ognissanti, per chi avesse poca familiarità col calendario, è il 1° novembre. E oggi in alcuni territori meno collinari si comincia a vendemmiare a fine agosto. Sessanta giorni prima in quarant’anni. In Italia oggi si coltivano avocado, mango e papaya in Sicilia, il Nord produce più pomodori del Sud e gli ulivi si affacciano sui declivi della Valtellina. È la traduzione pratica degli allarmi sempre più accorati dei climatologi. È questo che significa l’ultimo rapporto dell’Unione meteorologica mondiale, secondo il quale entro cinque anni potremmo sfondare almeno una volta la soglia di 1,5 gradi in più rispetto all’era preindustriale.
E se da noi la primavera è stata mite, alla fine di maggio nell’Artico canadese si registravano massime vicine ai 35 gradi. E in quegli stessi giorni l’osservatorio climatico del Mauna Loa, alle Hawaii, ha registrato una concentrazione di CO2 in atmosfera di quasi 420 parti per milione: la più alta degli ultimi 3 milioni di anni.
Spesso, quando mi capita di parlare con persone che hanno un atteggiamento scettico nei confronti dei pericoli del cambiamento climatico, mi sento rispondere che la temperatura del pianeta è stata anche molto più alta. Ed è vero. Come è vero che negli ultimi 10.000 anni, quasi tutto il Neolitico, lo sviluppo della nostra civiltà è avvenuto in una nicchia climatica molto stabile. E questo periodo corrisponde praticamente a tutta l’era dell’agricoltura in cui mai prima d’ora la Terra aveva dovuto dare sostentamento a 8 miliardi di essere umani.
Domani non sarà più così. E anche se da un anno e mezzo a questa parte abbiamo dovuto affrontare una minaccia più contingente, non possiamo continuare a ignorare l’elefante nella stanza. A meno che non ci rassegniamo a consegnare alle generazioni future un mondo meno ospitale di quello che abbiamo ereditato noi.
scritto da Marco Cattaneo, editoriale di Le Scienze n.635 di luglio 2021
segnalato da Alessandro Bruni