di Alessandra Sarchi.
Ve lo ricordate Indovina chi viene a cena? È una pellicola del 1967 con Spencer Tracy e Katharine Hepburn. Una ragazza bianca s’innamora di un medico afroamericano e decide di sposarlo. Prima, però, deve presentarlo ai propri genitori. Malgrado l’orientamento dichiaratamente progressista, la coppia reagisce con sgomento, ma alla fine l’amore trionfa sul pregiudizio razziale. Prima di approdare al lieto fine, un po’ alla volta si scoprono le doti insospettabili del futuro sposo e, soprattutto, i suoi successi professionali. Allo spettatore resta il sospetto che l’affermazione sociale e lavorativa dell’uomo giochi un ruolo determinante di riscatto del colore della pelle. Ecco, per quanto nel tempo abbiano conquistato spazio e consenso mediatico, le persone con disabilità sembrano ricalcare la sorte di Sidney Poitier nel film di Stanley Kramer. Per farsi perdonare la propria difformità rispetto al modello di normalità dominante devono possedere qualcosa di più: essere speciali, presentare doti di vera o presunta straordinarietà.
Così, dopo avere a lungo ignorato le loro sorti, i media sembrano oggi irrimediabilmente attratti dalle persone con disabilità e dalle loro imprese, sempre raccontate come eccezionali, anche quando si tratta di azioni di ordinaria normalità: suonare uno strumento musicale essendo ciechi, la laurea di una persona autistica ad alto funzionamento, la sposa in carrozzina. È assai più raro, invece, che una persona disabile venga interpellata dai media per un’abilità che non possa essere messa in relazione con il suo deficit. La regina della narrazione mediatica è la disabilità, protagonista ingombrante di uno storytelling che schiaccia e nasconde ogni altro tratto della storia e della personalità dell’individuo. Eppure la stessa Convenzione Onu per i diritti delle persone con disabilità ci esorta a porre l’accento sulla persona e non sulla sua disabilità. Un invito ancora oggi in gran parte disatteso dai media.
Nella rappresentazione mediatica le persone con disabilità sembrano condannate a condurre vite straordinarie, senza potersi mai permettere la normalità”. Alessandra Sarchi, storica dell’arte e scrittrice non ha dubbi: per una buona rappresentazione delle persone disabili c’è ancora tanta strada da fare. “Mi pare che il modello dell’eccezionalità si sia imposto anche in virtù dell’esistenza di atleti disabili che compiono imprese effettivamente straordinarie. Come se, a compensazione della propria disabilità, una persona dovesse per forza avere una vita eccezionale, portando a termine imprese che mettano in ombra la sua condizione oggettiva. Insomma, con tutta la stima e la simpatia che nutro per il mondo paralimpico, direi che prendere gli atleti a modello universale rappresenta un altro modo per negare le difficoltà e i limiti.
Di fatto vuol dire scaricare una responsabilità sociale, relegando in secondo piano l’attenzione verso le necessità delle persone disabili e il superamento delle barriere. Si tratta di una visione falsata e deresponsabilizzante, diffusa su i media e sui social, dove le storie di chi compie imprese straordinarie funzionano molto. Ma tanta enfasi sembra eccessiva. È come se per accettare la disabilità si dovessero sempre cercare forme di “ipercompensazione”. Viceversa mi pare che manchi completamente un’accettazione reale della disabilità, perché non vedo mai persone disabili interpellate per le loro competenze specifiche. Questo non fa che rimarcare la difficoltà a considerare un determinato tipo di fisicità come accettabile. Se vengo chiamata in televisione, il tema diventa la mia condizione fisica di donna che si sposta in sedia a ruote anziché i miei libri”.
In Italia c’è molto paternalismo, molto pietismo e pochissimo rispetto. Purtroppo prevale sempre il discorso di categoria: non si viene presi in considerazione in quanto persone, con la propria individualità, ma per il fatto di appartenere a una categoria. In questo modo le persone si smarriscono.
Nei media funziona più o meno cosi: o sei il supereroe disabile che affronta il mondo col cavallo bianco e la lancia in resta per sconfiggere i draghi oppure sei il disabile con il filo di bava, che non è in grado di intendere e di volere. Non esiste la terza possibilità”. Gianfranco Falcone è uno che ama spaziare, il suo blog Viaggi in carrozzina parla di tante cose diverse. E sulla rappresentazione mediatica delle persone disabili ha le idee chiare. “Quello che manca è la dimensione intermedia: non siamo tutti Zanardi, ma non siamo neanche tutti 'vegetali', esiste un popolo della disabilità molto variegato, fatto di persone che si alzano la mattina e vanno a lavorare in milioni di posti diversi: c’è l’attivista politico, il fotografo, il sarto, il giornalista. Il problema, però, è più generale: facciamo fatica a cogliere negli altri la molteplicità delle loro appartenenze. Ognuno di noi è tante cose messe insieme: io sono Gianfranco, scrivo, mi piace andare a teatro, amo il vino, non sono padre ma sono figlio e sono fratello. Insomma, ho una molteplicità di sfaccettature. Quando il mondo esterno mi identifica semplicemente come disabile in carrozzina, ecco che mi colloca in una prospettiva che non è la mia. Perché io sono tante altre cose e non soltanto la mia carrozzina”.
Il mondo della disabilità è fatto di mille sfaccettature diverse: esistono la paraplegia, la tetraplegia, l’autismo, la sindrome di Down, la cecità, solo per dirne alcune. È un universo talmente complesso che risulta impossibile pensare di poter fornire una lettura esaustiva di ciò che è o non è la disabilità. Per non parlare delle tante forme di disabilità occulta, basti pensare a quante persone con disturbo maniaco-depressivo possano essere considerate disabili, pur essendo assolutamente integrate nella società. Eppure la depressione maggiore è un disturbo di una ferocia incredibile, io non so se lo scambierei con la mia carrozzina.
Siamo troppo vincolati al concetto di normalità, ma la normalità non esiste: se mettiamo insieme sei milioni di persone con disabilità più i loro congiunti, le famiglie arcobaleno, i vegetariani, gli induisti, gli italiani di seconda generazione, ecco che il concetto di normalità diventa evanescente.
La realtà è quella che è, poi come viene descritta, duplicata e divulgata è tutta un’altra storia. Nel mio blog cerco di rappresentare la normalità: se per andare a teatro ho dovuto indossare il pannolone, parlo dell’incontinenza ma anche di quanto sia bello uno spettacolo di saltimbanchi. È un limite del giornalismo pensare che si debba essere necessariamente dei supereroi. Ci si dimentica delle storie minute. “La storia siamo noi” cantava Francesco De Gregori. E aveva ragione perché siamo noi, gente comune, a fare la storia. Accanto alle storie eclatanti, ci sono le storie di tutti i giorni. E noi dobbiamo assumerci la responsabilità di raccontarle queste storie. Eterosessuali, omosessuali, disabili, artisti, qualunque sia il nostro ambito di appartenenza, dobbiamo avere il coraggio di raccontare noi stessi in prima persona altrimenti saranno sempre gli altri a raccontarci.
Quella sui social è una comunicazione unidirezionale che riflette una società molto più frammentata rispetto a quella in cui è nata la legge 180. È cambiata la società ma non nel senso in cui sperava Basaglia: sono venuti meno i presupposti sui cui all’epoca si basava la riforma della psichiatria.
scritto da Alessandra Sarchi, pubblicato in SuperAbile INAIL di giugno 2021
sintesi di Alessandro Bruni
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