di Riccardo Larini. Un teologo diversamente cristiano.
Normalmente con tale termine si allude a quelle forme di aggregazione costituite da gruppi di persone che convivono in un territorio abbastanza limitato e che si riconoscono per una mutua dipendenza e un insieme relativamente ampio di caratteristiche comuni. La comunità è perciò un’aggregazione primaria, perché viene prima della società, sia in senso temporale sia nel senso che la società ne rappresenta una sorta di evoluzione e complessificazione inevitabili. La società infatti si compone di relazioni più complesse e articolate, comporta una certa divisione del lavoro e una coscienza sociale, ovverosia lo sviluppo di elaborate idee morali, religiose, giuridiche, economiche, politiche, estetiche e di ulteriori forme più complesse di conoscenza e di pensiero.
La teoria della società riguarda una costruzione artificiale, un aggregato di esseri umani che solo superficialmente assomiglia alla comunità, nella misura in cui anche in essa gli individui vivono pacificamente gli uni accanto agli altri. Però, mentre nella comunità gli esseri umani restano essenzialmente uniti nonostante i fattori che li separano, nella società restano essenzialmente separati nonostante i fattori che li uniscono.
Da un lato vi sono infatti coloro che ritengono sia meglio privilegiare la società rispetto alla comunità, perché sebbene sia per molti versi incontrollabile e distante dal calore delle relazioni primarie, sembra tuttavia consentire una certa liberazione dalle angustie di luoghi più ristretti e notevoli opportunità per i nostri desideri individuali di autonomia, espansione e crescita. La società è in tal senso il luogo per antonomasia dell’individuo liberale, e ancor più di quello libertario, ma lo è anche paradossalmente per chi ritiene, come i pensatori socialisti, che solo in un determinato tipo di società, in cui prevalgano determinati rapporti e idee giuridiche ed economiche, la libertà umana diventi veramente possibile.
Dall’altro predilige la comunità chi ritiene fondamentali i valori umani consentiti dalla partecipazione a un’entità sociale più circoscritta, valori che teme siano minati, messi in pericolo o posti in secondo piano dalla civiltà (industriale, tecnologica o di qualsiasi altro genere), come la solidarietà, la sicurezza, il calore che sarebbe possibile trovare solo nell’umanità consentita da rapporti più “primitivi”, primordiali, naturali.
Alcuni sociologi italiani, come Carlo Bordoni, ritengono che le nuove “comunità virtuali” siano per la risposta al nostro bisogno umano di comunità e che anzi rappresentino un esempio di grande efficacia performativa, perché ognuno di noi, a differenza di quanto ci era consentito dall’idea “territoriale” di comunità propria del passato, può appartenere tramite la rete a molte comunità, e dunque trovare risposte a ogni possibile bisogno individuale. «Oggi la comunità è un legame debole, ma capace di grandi performance», scrive il sociologo carrarese. Mi piacerebbe poter essere d’accordo con Bordoni, ma in realtà ci sono dimensioni chiaramente insostituibili della comunità “territoriale”, circoscritta, di cui abbiamo tutti, in un modo o nell’altro, forte nostalgia, dimensioni che, qualora trascurate, porteranno (e già lo stanno facendo) allo sviluppo di forti disagi psicologici e sociali.
Per raccontare questa dimensione penso basti condividere un’esperienza, o meglio un contrasto fra esperienze, che mi è capitato di vivere negli ultimi dodici mesi. Da un lato, infatti, la pandemia mi ha portato naturalmente ad aumentare il ricorso alle varie comunità virtuali cui appartengo, traendo spesso conforto e beneficio dalla mia “pluricomunità di senso”. Non di meno ho vissuto nel contempo l’esperienza molto più “fisica” rappresentata dall’accompagnare mio suocero negli ultimi mesi della sua vita, fino a tenere il suo discorso funebre per la cerchia ristretta dei suoi intimi, vicenda da cui ho tratto molto più senso e motivo di profonda riflessione rispetto a tutto il resto.
Contemporaneamente, pur essendo un uomo ben avvezzo alla solitudine, ho sentito la mancanza non tanto di occasioni conviviali (anche quelle, certo!) quanto piuttosto di quei confronti ad ampio raggio con amici e partner associativi che solo la presenza fisica in un medesimo luogo, protratta nel tempo, riesce a garantire.
Ma la dimensione più importante della comunità territoriale non è forse neppure quella della “fisicità”, pure così cara a molti di noi. Le comunità virtuali consentono infatti sicuramente di soddisfare in buona misura il nostro desiderio di comunicazione, elemento primario del nostro desiderio di comunità. E lo fanno rendendoci più liberi dai vincoli talvolta non graditi dell’esperienza tradizionale di comunità, ovverosia la sensazione di essere prigionieri di rapporti e di legami. Nelle comunità virtuali possiamo sempre “scegliere” con chi stare e chi lasciare, quando farlo e quando non farlo, senza grandi sensi di colpa o di responsabilità. Proprio per questo, però, le comunità virtuali portano a privilegiare le emozioni rispetto alla razionalità, le sensazioni del momento rispetto ai cammini di approfondimento e di verifica della fondatezza di ciò che abita le nostre menti e i nostri cuori.
Perciò non solo credo sia possibile mantenere forme di appartenenza a comunità tradizionali, pur rivedendone in profondità e in maniera critica regole e meccanismi di appartenenza, ma ritengo sia vitale proprio per far sì che si sviluppino luoghi liminali di trasformazione della società. E sebbene sia sempre utile, possibile e arricchente servirci anche delle molte comunità virtuali disponibili per assecondare i nostri bisogni di libertà, espansione e sviluppo e per definire nuove identità più globali, è fondamentale ripensare a gruppi territoriali come associazioni, partiti, parrocchie e comunità di ogni genere, funzionali a obiettivi a breve, medio o lungo termine, o semplicemente luoghi primari di un pensare comune, e dunque di senso e di umanità profonda e a trecentosessanta gradi.
Il vero compito che abbiamo oggi è perciò ripensare tutte le nostre comunità “territoriali” per adattarle sì alle nostre esigenze di donne e uomini contemporanei, senza tuttavia privarle di quel valore aggiunto che è appunto il non essere una pura emanazione dei nostri istinti del momento. Quello che possiamo pensare e realizzare vincolandoci ad altri per un tratto significativo di cammino è infatti sia un complemento importante al potenziale di scelta e di libertà offertoci dalle comunità virtuali, sia una fonte di senso e una risorsa interiore a lungo termine che queste ultime molto difficilmente riescono a offrirci.
I molti sociologi cantori dell’umanità “post-sociale”, come il francese Alain Touraine, ritengono che la comunicazione tra culture sarà possibile solo se in precedenza i soggetti si saranno svincolati dalla comunità. In questo modo, però, oltre a combattere contro un’esigenza che abita in maniera indelebile in ognuno di noi, si rischia di voler costruire modelli di comunicazione resi possibili soltanto dall’eliminazione delle differenze. Ma non credo che nessun ideale di società valga la pena di un tale sacrificio, né ritengo che l’eliminazione delle comunità territoriali a scapito della società globale sarà mai possibile.
scritto da Riccardo Larini, pubblicato nel blog dell'autore del 30 maggio 2021
sintesi di Alessandro Bruni
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Commento di Alessandro Bruni. Il rischio attuale delle comunità, come delle associazioni di volontariato, è che dopo la pandemia si continui privilegiare l''incontro virtuale, data la lori facilità e immediatezza a scapito delle riunioni fisiche. Raggiunta la sicurezza degli incontri bisognerà ricominciare a perseguire incontri fisici nei quali più che dibattere i temi di gestione associativa ci si continui a confrontare sugli scopi e sulla formazione degli stessi componenti delle comunità. Fattore importante, come rileva Riccardo Larini, è il mantenimento della diversità di opinione (che è sempre fonte creativa) nell'unità di scopo. Si ricorda che in un passo molto noto de Le due fonti della morale e della religione, il filosofo francese Henri Bergson ha scritto: Società chiusa è quella in cui prevalgono le forze di conservazione, in cui l’individuo è subordinato all’insieme, in cui i membri sono collegati solo in virtù di forze naturali. Società aperta è quella in cui prevalgono le forze di crescita, in cui l’individuo è libero nella sua capacità inventiva, in cui i membri sono collegati da una forza spirituale. Macondo docet!