di Marco Cattaneo. Giornalista e editorialista di Le Scienze e Mind.
Avevo dieci anni e spiccioli, quella domenica pomeriggio. Papà guidava paziente la nostra utilitaria mentre lungo la strada sfilavano striscioni e manifesti, quando sono scoppiato in un pianto dirotto e inconsolabile.
I miei genitori stavano parlando dell’imminente referendum sul divorzio, e quel pianto era una miscela esplosiva di rabbia e delusione. Giacché loro, parlando, si dichiaravano favorevoli al divorzio, io in pochi minuti mi ero girato tutto un film interiore sul loro divorzio.
E ci volle del bello e del buono per spiegarmi che erano favorevoli al diritto delle persone a determinare la propria vita. A cambiarla, se necessario. Loro non avrebbero divorziato, ma volevano permettere ad altri di farlo, se lo desideravano. Non credo di essermi fidato subito, ma il pianto si spense tra i sospiri in un silenzio composto.
Sono nato e cresciuto in una famiglia tradizionale, come si usa dire. Papà era artigiano, mamma casalinga. Si era tra gli anni sessanta e settanta, e più o meno tutti quanti, che io ricordi, eravamo nella stessa barca. Era una società omogenea. Una società scaturita dagli orrori della seconda guerra mondiale, di cui la famiglia era il primo pilastro; un pilastro solido e rassicurante, protettivo, almeno nell’immaginario collettivo. Certo, non erano tutte rose e fiori, ma la famiglia era anche il posto dove si lavavano i panni sporchi.
Il divorzio è arrivato. Ma anche la rivoluzione sessuale, le battaglie per l’emancipazione femminile, la parità (almeno sulla carta), più diritti – anche se non abbastanza – per le coppie omosessuali. Così nel breve volgere di due generazioni la famiglia è diventata altro. È ancora quella tradizionale, certo, ma anche genitori single, coppie omosessuali o ancora famiglie allargate in cui due coppie di genitori crescono i figli delle relazioni precedenti. In tutte queste circostanze, il ruolo del genitore è lo stesso. E non è tanto importante la composizione della famiglia, quanto l’armonia e il sostegno reciproco che vi si respirano, ma anche la rete sociale in cui i bambini sono immersi. Essere genitori, scrive Nicolas Favez a p. 24, «significa procurare amore e affetto, dare una struttura educativa, prendersi cura dei figli, mettersi d’accordo con il cogenitore, risolvere i conflitti, dimostrare una coesione capace di garantire un contesto di sviluppo stabile per il bambino…».
Ma queste caratteristiche non sono esclusive della famiglia tradizionale. E come racconta Favez gli studi più recenti sulla genitorialità hanno ampiamente dimostrato che – a parità di risorse socioeconomiche e di qualità umane – le famiglie omogenitoriali, monogenitoriali o allargate non presentano alcuna differenza nello sviluppo dei bambini rispetto alle famiglie tradizionali. Nulla di sorprendente, in verità. Stupisce piuttosto che la difesa della famiglia tradizionale quale valore in sé continui a permanere in alcuni ambienti della nostra politica contemporanea come se fosse automatica garanzia di buona famiglia. Nel 2021 c’è ancora chi combatte una battaglia di facciata e di retroguardia perché sui documenti sia scritto «mamma» e «papà» anziché «genitore 1» e «genitore 2» quando a ben vedere già al tempo di quel referendum che tanto mi indispose sul libretto delle giustificazioni c’era scritto «firma dei genitori o di chi ne fa le veci». La famiglia, la società, è già cambiata. E le politiche dovrebbero piuttosto occuparsi di dare sostegno alle famiglie in difficoltà. Di qualsiasi composizione siano.
scritto da Marco Cattaneo, editoriale di Mind n. 199 di luglio 2021
segnalato da Alessandro Bruni