di Andrea Gandini. Economista, analista del futuro sostenibile.
La pandemia ha messo a nudo i limiti della medicina territoriale. A parte il piano pandemico che non c’era, ai medici di famiglia è stato sconsigliato di visitare a casa i malati della Covid-19 e per le Usca (Unità di assistenza domiciliare aggiuntive ai medici di famiglia per le quali il Governo aveva dato alle Regioni l’8 marzo 2020 790 milioni), si è scoperto che solo la metà erano state costituite a fine 2020. Così sono stati abbandonati a casa loro per settimane decine di migliaia di malati che o sono guariti per fortuna da soli o, quando si sono poi aggravati, hanno intasato ospedali e terapie intensive. Un disastro, che è il motivo principale della mortalità record italiana nel mondo per Covid (2° posto assoluto dopo il Brasile).
Milena Gabanelli in uno studio pubblicato dal Corriere della Sera il 20 settembre evidenzia alcuni fatti noti agli addetti ai lavori e sui quali se non ci sarà una vera riforma andremo a “sbattere” come Paese un’altra volta. Tra 10 anni ci saranno quasi 800mila over 80 in più (5,2 milioni, il 9% della popolazione!), mentre aumentano i malati cronici (stimati a ben 23 milioni). Chi curerà tutta questa moltitudine? Non certo gli ospedali anche solo per il costo astronomico che ha un giorno di degenza (da 500 a 800 euro). Dovranno quindi in grande maggioranza essere curati a casa (al “letto del malato” come si diceva una volta), anche perché a casa propria si vive meglio e di più.
Da qui la necessità (come prevede il PNRR) di organizzare i medici di famiglia nelle 1.288 nuove case della Comunità previste entro il 2026 (una ogni 45mila abitanti). Ma dobbiamo capire se saranno i sanitari a recarsi dai pazienti o viceversa. Soprattutto per i territori extracittadini e di ampie dimensioni, quasi sempre con scarsi trasporti, sarebbe problematico per l’utenza (soprattutto anziana) raggiungere il servizio. Devono essere medici e infermieri che si recano dal paziente non viceversa, peraltro molte patologie possono essere monitorate da remoto, lasciando le persone al proprio domicilio, risparmiando soldi e offrendo buone cure (come nell’esperienza di Firenze, della Rete Long Term Care Alliance in collaborazione con la Regione Toscana, Fondazione CR Firenze, Comune di Firenze e Fondazione Montedomini). L’Infermiere di Famiglia sgraverebbe inoltre il medico di tante funzioni, dato che gli ambulatori sono sempre pieni. Naturalmente molti medici non sono felici di dare questo spazio agli infermieri, perché ritengono che certe pratiche le possano fare solo loro: ma allora a che serve la laurea?
Occorre anche mettere mano alla formazione post laurea che oggi è in mano alla lobby del sindacato dei medici di famiglia (FIMMG con 63% di iscritti e Simg 19%) che contrattano col Governo salari e orari dei propri associati. Ma non va bene che siano anche loro a fare la formazione (crediti ECM) post-laurea con lauti finanziamenti e “donazioni” delle case farmaceutiche. A parte il clamoroso conflitto di interessi, bisogna cambiare anche la formazione post-laurea dei neo-medici. In Europa e Regno Unito dopo la laurea si fanno 3 anni di tirocinio pagati 4-5 mila euro al mese con 1.600 ore di teoria e 3.200 di pratica (in ospedale o negli ambulatori dei medici di famiglia), mentre in Italia il tirocinio presso il medico di famiglia è pagato 966 euro al mese lordo che, dopo tasse e contributi diventano, 700 euro al mese, mentre se vai in ospedale come specializzando guadagni 2mila euro netti (26mila lordi annui, ma non si pagana le imposte). E’ quindi del tutto evidente già da questo che la professione del medico di famiglia è del tutto svalorizzata rispetto a quella ospedaliera.
Infine c’è il problema di accelerare l’inserimento al lavoro dei sanitari (sia medici che infermieri…che mancano) alleggerendo la parte “teorica” post laurea e favorendo l’inserimento di giovani al lavoro con tirocini pratici pagati come all’estero post-laurea (com’era peraltro un tempo). Paradossalmente proprio i mestieri a più alta professionalità devono avere una “pratica precoce”, in quanto dal lavoro e dalla pratica in équipe (a contatto con senior competenti) si impara come e più che dalla teoria (contrariamente a quanto crede gran parte della lobby dei medici di famiglia e molti docenti universitari).
Così nelle lauree infermieristiche (con pochi iscritti e in costante penuria), infine, si dovrebbe introdurre nell’ultimo semestre del 3° anno un tirocinio pratico ben pagato in modo di favorire sia maggiori iscrizioni, sia l’accelerazione dell’apprendimento (che vive della sinergia tra teoria e pratica), sia la transizione al lavoro. Come sempre si tratta di innovare, il mestiere più difficile in questo Paese, perché significa scontrarsi con regole e poteri consolidati e conservatori.
scritto da Andrea Gandini