di Marco Cattaneo. Giornalista e editorialista di Le Scienze e Mind.
La strada per fare luce sulle sue cause è lunga e insidiosa, ma la ricerca va avanti senza sosta. Secondo un documento pubblicato dall'Organizzazione mondiale della sanità all'inizio di settembre, le persone che soffrono di qualche forma di demenza, nel mondo, sono 55 milioni, con una incidenza di 10 milioni di nuovi casi ogni anno. Circa due terzi dei pazienti, vala a dire 35 milioni, hanno la malattia di Alzheimer.
Non sorprende dunque che l'annuncio dell'approvazione, da parte della Food and Drug Administaration (FDA) statunitense il 7 giugno scorso, del primo farmaco che mira a modificare il decorso dell'Alzheimer abbia sollevato speranze soprattutto nei familiari di chi è colpito dalla malattia. Tuttavia sull'aducanumab, questo il nome del farmaco, si sono abbattute anche le perplessità di una parte della comunità medico-scientifica. Secondo l'autorità regolatoria, da una parte, la molecola ha dimostrato sufficiente efficacia, riducendo i sintomi in fase precoce e contrastando la formazione delle placche amiloidi considerate una delle sospette cause della malattia. Dall'altra, l'approvazione è arrivata nonostante il parere contrario espresso da un comitato di esperti indipendenti nominati falla stessa FDA. I consulenti hanno contestato l'incompletezza dei trial clinici che, in particolare, non avrebbero dimostrato significativi miglioramenti nel ridurre il declino cognitivo dei pazienti. Il legame tra la riduzione degli aggregati di proteina amiloide e il recupero cognitivo sembra inaspettatamente debole.
D'altra parte, si sa, la malattia descritta per la prima volta da Alois Alzheimer nel 1907 è nemico subdolo, come raccontano Jason Ulrich e David Holtzman a pagina 34. Tanto più che ha una fase presintomatica che può durare da 15 a 25 anni. E proprio quella dovrebbe diventare il bersaglio per aggredire l'Alzheimer prima che provochi danni cognitivi irreparabili.
Per un secolo, le principali indiziate per l'insorgere della malattia sono state due proteine: la proteina amiloide e la proteina tau. E su di esse si è concentrata la ricerca, trascurando, osservano Ulrich e Holtzman, un altro fattore che era già stato illustrato da Alzheimer nell'autopsia della sua prima paziente: “Al microscopio notò chiare alterazioni della composizione strutturale di alcune cellule non neuronali, chiamate cellule della glia, che costituiscono circa la metà delle cellule cerebrali”.
Nell'ultimo quarto di secolo, poi, la indagini genetiche hanno individuato alcuni geni coinvolti nell'insorgere della malattia, ma che non sembrano essere responsabili di una frazione elevata dei casi; in genere, l'Alzheimer si presenta come “caso isolato” all'interno di una famiglia. Eppure recenti analisi ad ampio raggio hanno individuato un gene che è espresso soltanto nelle cellule della glia, e una sua mutazione che ne compromette il funzionamento aumenterebbe di 2-4 volte il rischio di contrarla. E anche altri geni individuati come fattori di rischio, dicono ancora Ulrich e Holtzman, suggeriscono un ruolo delle cellule della microglia nella genesi dell'Alzheimer.
La strada per fare luce sulle cause dell'Alzheimer è ancora lunga e insidiosa, ma scoprire la risposta della microglia alle placche amiloidi e ai grovigli di proteina tau potrebbe farci identificare nuovi bersagli terapeutici per provare ad arginare il terribile impatto della malattia. E dare finalmente sollievo ai pazienti e a chi assiste impotente al loro declino.
scritto da Marco Cattaneo, pubblicato in Le Scienze n.638 di ottobre 2021
segnalato da Alessandro Bruni
Post pubblicati in questo blog scelti da Alessandro Bruni sul problema sociale e familiare dell'Alzheimer.
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