sintesi e interpretazione di Alessandro Bruni dopo la lettura di Introduzione e conclusione scritte da Luca Savarino nel libro Eutanasia e Suicidio assistito, Claudiana, 2021. Focus senilità Focus fine vita
Fino a qualche anno fa eutanasia e suicidio assistito erano confinati al rapporto etico tra paziente e medico il quale aveva prevalenza per competenza e valore misericordioso. Oggi eutanasia e suicidio assistito hanno superato il chiuso dei reparti per porsi come espressione di pertinenza sociale collettiva propria dei cittadini che nelle società occidentali, pluraliste e secolarizzate, desiderano vivere la parte terminale della propria esistenza con il diritto di dignitosa autodeterminazione.
I sostenitori di questo diritto in genere non si riferiscono a uno specifico problema medico, ma a una questione antropologica dell'immagine ideale di sé nella quale ogni cittadino ha il diritto scegliere quando morire. Una visione della vita e della morte certamente senza sfumature, in bianco o nero; una visione retta da un preteso diritto individuale di morire con dignità, ma talvolta determinato dal senso di colpa del dover collocare il proprio caro anziano in RSA e idealmente proiettare se stesso nel medesimo futuro personale, quando verrà meno l'autosufficienza dell'alzarsi, del lavarsi, dell'alimentarsi ... Un percorso di vita ineludibilmente verso il fine vita, sia esso o meno aggravato da gravi malattie o inabilità, ma anche solo nella condizione di grande vecchio sopravvissuto alle patologie che si trova a vivere in un contesto fuori dalla propria casa e privo della continuità di luogo e degli affetti che lo giustificavano a continuare a vivere. La vita in una RSA, pur gestita al meglio, finisce col divenire un pre-hospice, il luogo dove si va a morire marginalizzati e soli, come negli antichi “lazzaretti”.
Certamente questa condizione di semplice grande anzianità non è da considerarsi un fattore che predisponga all'eutanasia o al suicidio assistito, ma certamente è il luogo e la condizione ove maggiormente nasce nell'individuo e nei parenti che lo visitano il che fare nel proprio fine vita e come si vorrebbe che avvenisse. Di qui la nascita strisciante di un desiderio inconscio di essere nella condizione di farla finita nel modo meno doloroso e più dignitoso possibile. Il problema del fine vita si è così spostato da problema individuale a problema sociale e di conseguenza al desiderare una legge che tuteli questo passaggio o a un presupposto etico-religioso che dia comprensione al proprio voler comunque vivere anche se non più autosufficiente, anche se dilaniato dalla sofferenza.
Il desiderio di programmare la propria morte non nasce solo in persone decise a porre un limite certo. Altri, altrettanto giustamente, pongono il diritto di poter scegliere o di essere lasciati morire solo in caso di grave prostrazione e dolore senza alcuna possibilità di vita dignitosa. Nella fattispecie il problema eutanasico si pone e si giustifica per l'accumularsi crudele di dolore o di dipendenza totale che fa superare l'orrore culturale o religioso del suicidio.
Esiste poi una linea di pensiero mediata, con notevoli distinguo, che si riassume in quel che viene citato come suicidio assistito, ovvero si giunge al diritto di terminare la vita di una persona mediante un consenso informato, con la cessazione delle terapie (meno quelle antidolorifiche). Il suicidio (medicalmente) assistito viene riconosciuto come legittimo nel caso di un paziente che sia capace di intendere e volere, che sia affetto da una patologia irreversibile, che sia in preda a sofferenze fisiche o psichiche che reputa intollerabili e che sia tenuto in vita da strumenti di sostegno. In questo caso, diversamente dagli altri citati, le condizioni di esecuzione esigono un giudizio umano altrui che può essere molto o poco condizionante e si riduce ad un atto che, più che etico diviene giudiziario, con tutto quel che consegue nel libero giudizio delle persone giudicanti. Si capisce bene che in quest'ultimo caso, il giudizio è fondato sulla distinzione filosofica tra uccidere e lasciar morire di assai sottile spessore all'atto pratico.
Il dibattito bioetico di fine vita ha portato in primo piano la questione del suicidio assistito e ha impegnato le diverse tradizioni morali a fornire giustificazioni convincenti per sostenere le rispettive tesi. Il tema è cruciale poiché la stessa eutanasia volontaria può essere considerata una specie di suicidio razionale assistito, in cui è un’altra persona, ad esempio un medico, a causare la morte del paziente.
In Italia con la sentenza 242/19 la Corte costituzionale ha legittimato il suicidio medicalmente assistito in specifiche circostanze, le quali in termini teorici sollevano una critica di illecito poiché spegnere gli strumenti vitali significa comunque dare la morte. Dobbiamo ammettere che non solo in Italia, ma in tanti altri Paesi, questo distinguo pur accettato viene declinato in modi assai diversi e spesso con definizioni spesso speciose e tardive rispetto alle esigenze del richiedente.
E' chiaro che in queste condizioni esiste e magari sempre esisterà, un vulnus interpretativo che è frutto della cultura del paese e del senso comune dei popoli. In Italia, come ha fatto la Corte costituzionale, si è distinto tra uccidere e lasciar morire ritenendo questa distinzione valida, ma applicabile in relazione alla valutazione del caso (il che ovviamente comporta anche un lungo iter medico e giudiziario, come si è visto nei casi ormai storici di cronaca sull'eutanasia).
Esiste poi un altro modo per valutare il fine vita: quello dell'etica religiosa. Secondo l'opinione più diffusa tra le Chiese cristiane esistono due vie di approccio al problema: la prima maggioritaria non nega il diritto del paziente di chiedere di essere lasciato morire quando le terapie si rivelino inutili, né il diritto del paziente stesso di essere trattato con mezzi palliativi adeguati anche nel caso in cui rischino di abbreviarne la vita (sedazione profonda), ma che rifiuta che il paziente abbia il diritto di essere ucciso.
La seconda linea di pensiero, minoritaria, pone il paziente al centro del giudizio considerando come prioritaria la sua scelta morale individuale e secondariamente quella del medico e della società. Questo perché, da un punto di vista cristiano, la vita biologica non va considerata come un bene indisponibile, ma come un dono ricevuto di cui ciascuno è chiamato ad assumersi la responsabilità di fronte a Dio. Questa seconda linea di pensiero è praticata soprattutto in ambito protestante e deriva da un diverso atteggiamento nei confronti della sofferenza.
I cattolici danno talvolta un valore positivo alla sofferenza, quasi un contributo per la propria redenzione, o quella degli altri (tanto da essere divenuto uno stigma culturale: si ricorda che il consumo di antidolorifici per prescrizione medica a malati di cancro fino agli anni 60 del novecento era grande nei paesi protestanti e minore nei paesi cattolici). Ancora oggi, notoriamente tra cattolici e protestanti, è diverso il valore della libertà di coscienza, ovvero l'abitudine alla libera scelta personale e ad esercitare la propria responsabilità individuale. Il protestante è libero e responsabile di decidere da solo nelle questioni politiche e culturali o di fede. Di certo il protestante tende a vivere sul piano individuale le scelte etiche in bianco e nero (ut … ut) e compito della sua chiesa è di stimolare le coscienze più che a dire come ci si deve comportare. É altrettanto vero che questo lo porta a rifuggire dalla saggezza delle mediazioni che invece caratterizzano il cattolico e la sua chiesa (et .. et).
Pur con diverso approccio mentale alla fede, cattolici e protestanti condannano l'indifferenza (si pensi agli ultimi discorsi di papa Bergoglio) che di fatto è il male peggiore del costume italiano contemporaneo, specie quando la singola persona prima di prendere posizione nei temi di ampio respiro etico si affida ad una logica di antica lotta tra guelfi e ghibellini, tra fazioni, prima ancora di operare una scelta di coscienza individuale. Così il dibattito, come è avvenuto per il divorzio, per l'aborto, per l'omotransfobia (ddl Zan) e ora per l'eutanasia, si dipana in lotta verbale tra fazioni che esprimono la vigoria della contesa di gruppo piuttosto che il pacato ragionamento etico e il disposto legislativo per una giusta causa (la discussione su un provvedimento è quasi sempre preceduto dalle posizioni dei partiti prima ancora che il dibattito pacato abbia origine).
Tutto questo fa comprendere quanto pesi in Italia la terza linea di pensiero, quella giuridico-legislativo, che in questo post non affronto per mia incapacità. Preferisco resistere alla tentazione del legalismo e del dogmatismo che affliggono la politica (e certe chiese), senza però rinunciare ai principi e senza cedere a derive assolutistiche. A mio parere, con il conforto di quanto scrive Savarino, anche per l'eutanasia, occorre trovare soluzioni ragionevoli che siano in grado di conciliare, all'interno di una società pluralistica, la libertà individuale, il valore della vita umana, in particolar modo di quella fragile e sofferente. In definitiva ritengo che per riflettere sul fine vita sia necessario porsi su un piano intermedio senza facili assolutismi preconcetti e senza specialismi lontani dalla vita pratica di coloro che in casa vivono con un proprio caro in condizioni terminali.
Savarino nel suo libro ha affrontato un tema controverso, ha tentato di distinguere tra diversi livelli del discorso, che spesso si intrecciano e si confondono reciprocamente sul piano scientifico, etico e giuridico, senza dimenticare l'etica religiosa nel rispetto delle sue differenti interpretazioni, ma soprattutto senza dimenticare la persona come frutto della sua storia e della sua cultura.
All'interno di questo contesto, si ritiene che non esistano ragioni universali per giudicare moralmente illegittima la scelta di morire da parte di un individuo, ma riconoscendo che esistono ragioni di prudenza che consigliano di essere attenti alle possibili dinamiche sociali negative di una legalizzazione dell'eutanasia e del suicidio assistito con scadimento da scelta etica a prassi indifferenziata.
Savarino, giustamente a mio parere, propende per una soluzione forse poco coraggiosa, ma aperta. Il pericolo sta nella probabile politicizzazione e negli assolutismi incrociati da dibattito televisivo. Personalmente penso che l'autonomia individuale, concetto difficile da definire lo riconosco, non possa essere l'unico criterio socialmente accettabile per legittimare la scelta individuale al morire. L'autodeterminazione però rappresenta un elemento necessario, ma non sufficiente, di una buona legislazione su fine vita.
Il principio cristiano, ma anche laico, da cui partire è certamente la misericordia, non in astratto, ma nel suo concreto operare rispetto alle azioni progettate o compiute da individui chiamati a compiere scelte difficili, complesse e discutibili. Ciò a cui non si può sfuggire è la domanda che l'altro rivolge con insistenza e gravità. Per quanto paradossale possa essere, in una tale situazione per i protestanti progressisti accogliere la domanda di morte significa accogliere la domanda della vita, accogliere il diritto di morire coscientemente la propria morte in libertà di coscienza come espressione di diretto rapporto con Dio senza alcuna determinazione preordinata dalla propria chiesa.
Vengono alla mente le dissertazioni di Cattorini, il quale si chiede quali siano le argomentazioni che in ambito cristiano inducono a condannare la volontaria interruzione di una vita ritenuta non più meritevole di essere vissuta. Sono motivazioni comprensibili unicamente in un’ottica di fede o possono venir tradotte in un linguaggio persuasivo anche per atei, agnostici, non credenti? Inoltre, che cosa intende la prospettiva etico-teologica quando definisce “suicidio” la decisione di togliersi intenzionalmente la vita? Esistono casi di estremo pericolo o di irreversibile sofferenza, in cui la consapevole scelta di morire potrebbe essere guidata da motivazioni altruistiche o assumere un significato di rispetto della residua bellezza di un’esistenza che si spegne? Domande terribili, alle quali prima o poi la vita ci conduce e che il libro di Savarino aiuta a comprendere.
scritto da Alessandro Bruni come sintesi e interpretazione alla lettura di Introduzione e conclusione scritte da Luca Savarino nel libro “Eutanasia e Suicidio assistito. Una prospettiva protestante sul fine vita”, Claudiana, 2021.
Fonti
- Giorgio Girardet, Protestanti e cattolici: le differenze, Claudiana, 2007
- Luca Savarino, Bioetica cristiana e società secolare, Claudiana, 2013
- Paolo M. Cattorini, Suicidio? Un dibattito teologico, Claudiana, 2021
- AA.VV. Il fine vita. Madrugada 120.