di Marco di Porto. Giornalista e scrittore.
Lavorando e frequentando le tematiche della Memoria per motivi professionali ma anche familiari (mio nonno materno è stato uno dei pochi sopravvissuti alla deportazione degli ebrei di Rodi, e la sua storia risuona dentro di me da sempre, cuore del nostro romanzo familiare), mi sono spesso posto una domanda: siamo sicuri serva davvero, questo faticoso impegno a ricordare?
Nella migliore delle ipotesi, mi sono detto a più riprese, qualche generazione di italiani sarà abbastanza informata sulla Shoah e sui crimini del nazifascismo e magari avrà sviluppato un po’ di anticorpi utili a riconoscere e a contrastare quelle nefaste ideologie (il che, oggettivamente, è già qualcosa); ma come si potrà trasmettere l’orrore e lo sdegno per quegli eventi con la stessa efficacia fra cento o duecento anni, anche dopo la scomparsa non solo dei testimoni diretti, ma anche dei loro figli e nipoti? Un comprensibile distacco, dovuto allo scorrere del tempo, sarà inevitabile. E allora, quei tragici errori potranno essere commessi di nuovo, come ha ammonito Primo Levi: «È avvenuto, dunque può accadere di nuovo. Questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire». Dunque, a che serve tutto questo sforzo?
scritto da Marco di Porto, pubblicato in Confronti del 19 gennaio 2022
segnalato da Alessandro Bruni