di Francesco Cundari. Pubblicato in Linkiesta del 19 marzo 2022.
In tante discussioni sulla pandemia prima e sulla guerra poi, in modi diversi, si è riproposto ultimamente un dilemma antico: quello tra l’esigenza di prendere una posizione netta, esigenza anzitutto morale, e la necessità di non rinchiudersi in una posizione minoritaria, necessità anzitutto politica.
La sollevazione populista cominciata con la Brexit e Donald Trump nel 2016, e ancora prima in Italia, ha dato nuova centralità e nuovi significati alla questione dell’arroganza delle élite, in contrapposizione alla presunta umiltà dei demagoghi. Alla retorica sui limiti di un approccio illuminista, e sull’antipatia degli esperti, in contrapposizione all’empatia dei ciarlatani.
Proprio su questi temi, più di dieci anni fa, quindi anche con una certa dose di preveggenza, Franco Cassano scrisse un saggio molto bello che mi è tornato in mente in questi giorni: «L’umiltà del male» (Laterza). Dopo faticose ricerche l’ho recuperato da un anfratto della libreria, miracolosamente sopravvissuto a vari traslochi, e la primissima cosa che mi ha colpito è stata l’incredibile attualità della quarta di copertina, persino nel lessico (era l’inizio del 2011, al governo c’era ancora Silvio Berlusconi): «Senza un’élite competente e coraggiosa la politica muore. Ma questa spinta morale deve sapersi confrontare con la maggioranza degli uomini, misurarsi con la loro imperfezione, deve diventare politica».
segnalato da Alessandro Bruni