di Luigino Bruni, esperto di educazione economica e religiosa. Pubblicato in Avvenire del 5 marzo 2022.
ndr. Completiamo il ricordo di Pierpaolo Pasolini con questo articolo segnalato da Antonio Bolzon.
Nel centenario della nascita, da riprendere il lascito dell’artista che seppe segnalare l’idolatria del nostro tempo
I poeti sono i custodi delle parole – delle loro parole, delle nostre parole di oggi, delle parole di domani. Per questo somigliano molto ai profeti biblici, sentinelle – shomerim – di una parola diversa, che custodiscono affinché le nostre parole non diventino tutte vanitas, soffio, vento, fumo, chiacchiere. Non capiamo la critica radicale di Pier Paolo Pasolini al capitalismo e al consumo senza partire dalla sua riflessione sulla lingua. Lui la vedeva ormai asservita al Potere del consumo, trasformata in un linguaggio che aveva perso contatto con le cose concrete e vive e, quindi, con l’anima del popolo e delle persone. Il destino della lingua gli svelava quello della cultura italiana – e se avesse potuto guardare il mondo un po’ più a lungo vi avrebbe letto anche il destino dell’Occidente, perché si trattava e si tratta dello stesso declino. Si allontanavano entrambe, Italia e lingua, da qualcosa di povero, duro, severo ma vero, da un mondo «puramente umano, accoratamente umano» (Le ceneri di Gramsci, p. 45), e si avvicinavano a un nuovo mondo meno povero, duro, severo ma che diventavano ogni giorno meno vero. Il discorso di Pasolini sulla lingua è dentro la sua ricerca vitale di un fondamento non-finto, di un’origine, di una pietra angolare dell’esistenza che la trattenesse dallo sprofondare nel nulla.
segnalato da Antonio Bolzon