di Luigi Viviani. Sguardi al futuro politico.
Mentre il premier Draghi si è recato a Washington ad incontrare il presidente Biden con il quale ha illustrato una linea coraggiosa, a nome dell’Italia e dell’Europa, tesa ad assumere il negoziato come obiettivo primario finalizzato a una tregua sul campo della guerra, e ad avviare un vero negoziato tra le parti per costruire una soluzione senza imposizioni dall’alto, il dibattito politico all’interno del nostro Paese, condotto da leader che fanno parte della maggioranza di governo, appare motivato da presupposti del tutto diversi.
Il leader del M5S Giuseppe Conte, largamente coadiuvato da Matteo Salvini della Lega, ha aperto una dura polemica nei confronti dello stesso premier sostenendo che, sulla fase attuale della guerra, il governo italiano non ha avuto un preciso mandato da parte del Parlamento, e che oggi, dopo il terzo invio di armi all’Ucraina, e necessario che l’Italia ponga fine a tale scelta per concentrarsi con maggiore coerenza sulla necessità del negoziato.
Per cercare di capire il reale significato politico di tali critiche è necessario premettere che il governo Draghi, pur avendo ricevuto dal Parlamento un voto di approvazione successivo, è stato scelto dal Presidente della Repubblica per far fronte alla crisi in cui le Camere si erano cacciate dopo la caduta del governo Conte 2, nel cuore di una legislatura che si è caratterizzata per governi precari e di segno politico opposto, nei quali il M5S era stato il maggiore responsabile. In tale contesto, lo stesso Parlamento conserva per intero i propri poteri, ma l’aver condiviso una sorta di suo commissariamento, dovrebbe renderlo attento ed equilibrato nel richiedere ripetute verifiche con approvazioni formali nel voto. Tanto più in caso di delicate missioni di politica internazionale nel vivo di una guerra che comunque ci coinvolge, situazione nella quale la massima unità del Paese è d’obbligo.
Sulla materia Draghi ha riferito in marzo in Parlamentò e sull’invio di armi all’Ucraina ha espressamente richiesto il voto di fiducia in Senato. Ferma restando la necessità di una periodica informazione alle Camere, nel caso del viaggio negli Usa, un dibattito preventivo con relativo voto, date le posizioni espresse ultimamente dai diversi partiti, avrebbe sortito l’esito di un dibattito divisivo, probabilmente riflesso nel voto, con l’effetto di ridimensionare se non azzoppare politicamente il premier, riducendo drasticamente la sua possibilità di intervento significativo sui complessi nodi del conflitto in corso, e nelle alternative alle forniture russe di gas.
Alla luce dello svolgimento dell’incontro Draghi-Biden dovrebbero essere proprio coloro che sollecitano la priorità del negoziato a essere soddisfatti. Infatti, in tale occasione Draghi, anche alla luce dei mutati rapporti di forza tra le forze sul campo, ha proposto una evidente svolta nella strategia europea e occidentale sul conflitto, in direzione della ricerca di un difficile negoziato tra le parti, anche indirettamente in causa, frutto di una iniziativa diplomatica diffusa, alla quale tutti i Paesi, in vario modo coinvolti, dovrebbero dare un contributo concreto per creare quella tregua delle armi, indispensabile per rendere efficace il negoziato, che non potrà che svilupparsi nel solco dell'accordo di Minsk del 2014, finora largamente disatteso.
Se oggi si avviano primi contati diretti tra esponenti americani e russi il merito è anche di Draghi. Intanto la situazione della guerra, nei suoi molteplici aspetti, manifesta sempre più i suoi effetti globali, in termini di messa in discussione dei precedenti equilibri geopolitici ormai non più idonei a regolare i mutati rapporti tra gli Stati e le diverse grandi aree del pianeta. Dalle conseguenze della richiesta di entrare nella Nato da parte dei neutrali Paesi di Finlandia e Svezia, allo sconvolgimento del mercato energetico globale, dalla fame di diversi Paesi per effetto del blocco del grano dell’Ucraina, al forte balzo dell’inflazione con possibile aumento delle disuguaglianze e della povertà, acuite da una conseguente, possibile recessione.
Comunque si concluda questa guerra, appare chiaro che un intero ordine mondiale esce profondamente ferito e non più sostenibile, per cui l’insieme delle diverse istituzioni globali e le relazioni tra le potenze politiche dovranno essere ridiscusse e nuovamente regolate. Valga l’esempio dell’Europa che di fronte a questa situazione si sta rimettendo in discussione, ridefinendo i trattati istitutivi in direzione del superamento della unanimità del processo decisionale, della programmazione e del coordinamento europei dei problemi più scottanti come quello dell’avvio della Difesa europea. Tornando alla situazione italiana, verificheremo le reazioni dei diversi partiti sulla comunicazione del presidente Draghi in Parlamento, prevista il 19 maggio, ma già fin d’ora, sentiti alcuni commenti in gran parte avulsi dalla realtà, e troppo platealmente rivolti a intercettare il consenso elettorale di quell’area consistente di cittadini italiani in dissenso sull’invio di armi agli ucraini, le prospettive del nostro sistema politico suscitano non poche perplessità.
Troppe risultano le divisioni nelle vecchie coalizioni e all’interno dei partiti che le compongono, per cui la priorità della ricerca del consenso e le lotte di potere tra i leader, riducono la politica a gioco irresponsabile, lontano dai problemi del Paese. Senza essere pessimisti, se nell’anno che ci separa dalle elezioni politiche del 2023 non si verificheranno significativi cambiamenti in termini di vera responsabilità politica, il governo che si preannuncia dopo il voto politico appare come una sorta di incubo. La riforma della legge elettorale in senso proporzionale, potrebbe rappresentare una prima scelta nella giusta direzione, perché ogni partito partirebbe dal suo consenso reale come premessa per alleanze più omogenee. Ma le resistenze che si profilano sembrano bloccare tale possibilità.