Questo post esige una spiegazione. Ho ricevuto un articolo da Paolo Bartolini, un giovane filosofo attento alla situazione socio-politica che si è verificata con la guerra in Ucraina. Lo scontro tra Russia, Europa e Usa sembra divenire sempre più complesso e soprattutto tende ad aprire notevoli squarci di violenza non solo da parte dei belligeranti, ma in tutto il mondo. Un quadro che determina schieramenti politici, di forza e di diritto affatto semplici da comprendere. Per tutti noi è sempre più difficile delimitare gli argomenti in gioco: politica, economia, armamenti, genocidi, presente, futuro. Per aggiungere e dare valore a quanto scrive Bartolini, le cui espressioni provocatorie vanno lette come pungolo a coscienze assopite, ho ritenuto utile accompagnare il suo articolo con altre suggestioni di pensiero anch'esse palpitanti di complessità dato che la pace non può che essere mediata e non imposta. Per questo fine ho inserito brevi stralci scritti da Guido Formigoni, Valerio Onida e Matteo Zuppi, giusto per favorire un dialogo aperto a più voci e per non farci incantare dalla tante verità che i media oggi propongono sul tema. (Alessandro Bruni)
Dal pensiero dicotomico al pensiero complesso
di Paolo Bartolini. Filosofo, tra psicologie del profondo e spiritualità laica.
Brutta bestia il pensiero dicotomico, soprattutto quando la dualità insuperabile che accompagna la vita diventa dualismo contrappositivo. Prima, all’apice della pandemia, complottisti e conformisti, entrambi segretamente complici nel semplificare il complesso: vaccini cattivi Vs vaccini salvezza assoluta, virus inesistente Vs virus come peste nera.
Oggi sappiamo che queste polarizzazioni sono servite solo a governanti incapaci e in malafede, i quali – come previsto – non andranno mai a sostenere la sanità pubblica e la medicina territoriale, perché il pilota automatico neoliberista non lo permette. Quest’ultimo non permette nemmeno che si dibatta seriamente sui farmaci via via disponibili nelle situazioni d’emergenza, perché farlo vorrebbe dire esercitare quella gradualità e prudenza scientifica incompatibile con i ritmi dell’economia di mercato e le sue esigenze di ritorno istantaneo alla “normalità”.
Oggi la nostra attenzione è assorbita dalla guerra in Ucraina, nuova fase (con salto di scala che è quantitativo e qualitativo insieme) di un conflitto che dura almeno dal 2014 da quelle parti, a cui si aggiungono vecchie ruggini presenti in molto paesi dell’ex Unione Sovietica, di certo non felici di una possibile influenza russa. Altrettanto infastiditi dell’accerchiamento NATO si sono mostrati Putin e i suoi, per anni propensi a lanciare avvertimenti inascoltati. E a febbraio la situazione è precipitata con l’invasione dell’Ucraina. Le polarizzazioni sono, anche qui, sempre in agguato. Semplificazioni a grappolo, pericolose come ordigni nucleari (perché esplodono nelle teste e nei cuori delle persone).
Ecco, dunque, che teste vuote sono capaci sia di considerare gli ucraini tutti nazisti, sia di negare che in Ucraina vi siano frange neonaziste colpevoli di nefandezze varie (si veda la guerra civile con i separatisti del Donbass) nella completa tolleranza dei governi in carica. Da un lato si può giungere a minimizzare l’aggressione di Putin – perché certo, se vieni provocato allora devi pur fare qualche migliaio di morti anche tu, compresi i civili –, dall’altro si psichiatrizza la politica con reductio ad hitlerum e altri trucchi loschi che servono a nascondere sotto il tappeto le responsabilità dei padroni d’Europa (gli USA) in quella che è fine tessitura di una ragnatela volta, ahinoi, a catturare la Mosca sbagliata.
In televisione, e nei quotidiani mainstream, le poche voci fuori dal coro sono silenziate o trattate come capri espiatori. In Parlamento i tristi rappresentanti di se stessi si barcamenano, a parte poche eccezioni, dando un colpo al cerchio e uno alla botte. Si parla di negoziati e, dietro le quinte, si continuano a inviare le armi (con profitto delle industrie più infami che vi siano). Nel frattempo, impossibilitata l’Ucraina a raggiungere una vittoria sul campo, la stessa viene premiata da un afflato di solidarietà in occasione di uno spettacolo musicale in eurovisione. Vittorie simboliche, si dirà.
Mentre siamo risucchiati nell’attualità filtrata dai mass media, nel resto del mondo i soliti prevaricatori continuano a massacrare innocenti, ma di armi per le vittime non ne abbiamo. Mica vogliamo scatenare una guerra mondiale! Del resto ragionare con passione, nel rispetto reciproco, è sempre più difficile. Mancano tempo e capacità. Questa è l’epoca dell’emergenza. Non di emergenze create a tavolino (come vogliono i cospirazionisti faciloni), ma di realissime emergenze che denunciano l’aggrovigliarsi di crisi multiple e sistemiche: geopolitica, cambiamenti climatici, sanità, istituzioni “democratiche”, flussi migratori…
Nel mezzo del disastro, quando tutto precipita, anche le menti, le parole, le culture rischiano di accelerare il processo entropico. È in questi momenti di trafelato sgomento, di agitazione senza direzione, che deve sorgere la domanda etica, quindi filosofica. Da che parte stare se la nostra vocazione è quella di salvaguardare l’intero, nel suo fitto rimando di interconnessioni? Come non capire che nuovi equilibri mondiali sono ormai indispensabili, non per mettere all’angolo gli Stati Uniti, ma per abolire e disarmare tutte le tendenze imperialiste e nazionalistiche (e ribadisco “tutte”)?
L’Europa al momento è troppo debole e insignificante per uscire dalla gabbia, eppure un compito di civiltà la aspetta: rimediare alle logiche dicotomiche che ha sviluppato e diffuso ovunque, dare il suo contributo a un pensiero della complessità, decolonizzare le proprie pretese colonialiste e trovare la via più dignitosa per un tramonto in grande stile. Non un suicidio che ci porti a passare da un protettore all’altro sullo scacchiere globale, ma una riconfigurazione delle relazioni internazionali guidato dall’arte della riflessione e dell’autocritica costruttiva. Tutta roba fuori moda, che non darebbe mai vita a uno show di successo, saggezza invendibile sul mercato. Dunque tanto più preziosa.
Che significa oggi vincere o perdere una guerra?
di Guido Formigoni, Pubblicato il Il Mulino del 11 maggio 2022.
[...]
Se allora la vittoria non sembra poter essere per nessuno dei due antagonisti una vittoria totale, non dovrebbe essere logico che la “comunità internazionale” nel suo insieme – e primi entro di essa i paesi occidentali, sostenitori dei valori del diritto, della convivenza pacifica, della cooperazione multilaterale – premesse sui protagonisti per trovare un modo di fermare la guerra? Il presidente Mattarella ha parlato di ritorno allo “spirito di Helsinki”, che mi pare un ottimo riferimento. La Conferenza per la sicurezza e la cooperazione europea approvò nel 1975 un atto finale, accettato dalle due parti contrapposte del continente, pur divise profondamente da ideologie rivali. Dove si affermava l’inviolabilità (non l’immodificabilità) dei confini e si accettava il principio comune dei diritti umani almeno formalmente come comune sfondo dei due sistemi. L’idea di molti protagonisti di quelle trattative, forse non di tutti, era che questi elementi (la cooperazione, il negoziato, il mutuo riconoscimento) potessero ammorbidire col tempo anche la rigidità della “cortina di ferro”. E il 1989 avrebbe dimostrato qualche effetto positivo di quell’approccio. Oggi siamo meno impacciati di allora da orizzonti ideologici rigidi. Non dovrebbe essere impossibile immaginare un’azione convergente per premere sui contendenti (necessariamente soprattutto sull’aggressore russo) per costruire un processo di conclusione delle ostilità e recuperare un livello di convivenza minimale per tutti gli attori in gioco. In questo compromesso, magari criticabile e senz’altro contingente, ci potranno essere forme diverse di soddisfazione di ciascuno. Senza sconfitte né vittorie totali. Occorre uscire definitivamente dall’ombra lunga dell’età primo-novecentesca della catastrofe.
stralcio di Alessandro Bruni. Per leggere l'articolo completo aprire questo link
Guerra, diritto, costituzione
di Valerio Onida. Questo articolo uscì sul numero 5/1999 a seguito dell'azione militare intrapresa dall'Alleanza atlantica contro la Serbia di Slobodan Milošević. Oggi ripubblicato da Il Mulino del 17 maggio 2022.
[...]
Si potrebbe a questo punto, o forse si dovrebbe, aprire la discussione sul se l’intervento della Nato nei Balcani potesse configurarsi come un intervento di legittima difesa di diritti umani violati, nella contingente inerzia dell’autorità internazionale che sarebbe stata legittimata a intervenire e in «supplenza» di questa; se tale inerzia fosse di fatto inevitabile; se gli obiettivi dell’intervento e i mezzi impiegati rispondessero ai criteri conseguenti.
Ma più che tentare risposte perentorie a questi interrogativi – il che richiederebbe un’analisi dei fatti – interessa qui osservare che il maggiore rischio «ideologico» verificatosi in questa occasione sembra essere stato quello di trasmettere all’opinione pubblica mondiale un messaggio regressivo anziché progressivo: non nel senso, cioè, che si agiva in uno stato di «necessità», pur sempre ispirandosi all’ideale di un ordine internazionale pacifico e giusto (quello cui si riferisce l’articolo 11 della Costituzione), e sia pure, in ipotesi, pagando il prezzo di una ancora troppo imperfetta realizzazione dei suoi postulati, bensì nel senso che quell’ideale è morto e sepolto, e che l’unica realtà valida è il rapporto di forze, nella specie fra gli Stati dell’alleanza occidentale e altri Stati che di essa divengano «nemici»; che sono finite le utopie dell’internazionalismo, e che finalmente si torna a ragionare nei termini tradizionali e «realistici» della guerra come strumento supremo, o almeno estremo, della politica internazionale. Un messaggio dunque non già aperto ad un futuro da costruire, ma rivolto ad un passato che l’umanità sembrava volere faticosamente superare.
Questo messaggio è inaccettabile. Che la costruzione dell’ordine internazionale pacifico e giusto preconizzato nell’articolo 11 sia ancora all’inizio, e che immense siano le difficoltà a procedere in questo senso, è un fatto: ma il costituzionalismo non può rinunciare, per quante possano essere le difficoltà e le contraddizioni, ad affermare la forza del diritto – umana imperfetta espressione della giustizia – piuttosto che il diritto della forza.
stralcio di Alessandro Bruni. Per leggere l'articolo completo aprire questo link
Russia-Ucraina: il mondo deve imporre il negoziato
di Matteo Zuppi. Pubblicato in Jesus del maggio 2022.
La tragica guerra tra Russia e Ucraina non sfugge al bipolarismo da like/no like che il web impone, facendo illudere di contare, in realtà semplificando pericolosamente perché ignora l'intreccio tra torti e ragioni e la complessità della storia. Il contrario, ovviamente, non è il sospetto che scivola nell'irrazionalità e nelle fake news.
Chi sfugge al bipolarismo agonistico prende la posizione che deve orientare le scelte, senza ambiguità, ma con intelligenza: la pace. Solo scegliendo la pace si trovano le soluzioni e i compromessi indispensabili per raggiungerla. Perché ogni secondo di guerra è un conto che pagano le vittime, dirette (le migliaia di civili, considerati volutamente come bersagli) e indirette (gli anziani che non hanno protezione o i malati che devono interrompere le terapie). Occorre "fare" la pace, a qualsiasi prezzo.
Certo, c'è aggressore e aggredito, e "fare" la pace non significa mettere tutti sullo stesso piano. La Russia ha perso tutte le ragioni avviando un conflitto che papa Francesco per primo ha svelato per ciò che effettivamente è: non si tratta «solo di un'operazione militare speciale, ma di guerra, che semina morte, distruzione e miseria».
La posizione è quindi chiara: condanna della guerra in atto e di chi l'ha iniziata. Ma quello che serve ora, insieme al diritto a difendersi, è lavorare con determinazione per «porre le basi di un dialogo sempre più allargato», imponendo il negoziato. Occorre coinvolgere interlocutori che si impegnino per identificare la soluzione e garantirne l'attuazione. Solo cercando la pace si mette un limite alla logica della guerra! Il realismo da scegliere è il disarmo, e finanziare organismi internazionali capaci di limitare i nazionalismi, per far crescere il concerto di nazioni che hanno cura dell'unica "casa comune".
Il fatto è che, come dice l'enciclica Fratelli tutti, «non c'è più spazio per diplomazie vuote, per dissimulazioni, discorsi doppi, occultamenti, buone maniere che nascondono la realtà». Il processo di pace «è un lavoro paziente di ricerca della verità e della giustizia, che onora la memoria delle vittime e che apre, passo dopo passo, a una speranza comune, più forte della vendetta». Questo è ciò che serve oggi: non belle intenzioni, ma scelte consapevoli che affrontano il presente e preparano un futuro di pace.
segnalato da Alessandro Bruni