di Lorenzo Tomasin. Pubblicato in Strada maggiore 37. Newsletter de il Mulino del 15 giugno 2022.
Vari racconti e romanzi italiani recenti parlano di altri libri o della vita di chi si occupa di libri (senza che i loro autori siano Borges, ovviamente). Di solito questa scelta, diciamo così tematica, suscita qualche irritazione nel lettore smaliziato. È facile capire i moventi di chi scrive un romanzo essendo a sua volta un editor e ambientando la storia (poniamo) nell’ambiente delle case editrici della Roma o della Milano d’oggi.
La ragione sta innanzitutto nella tendenza al pigro e automatico rispecchiamento autofinzionale che fa della maggior parte della narrativa italiana contemporanea una steppa di noia e d’insopportabile narcisismo, popolata soprattutto da scriventi o da lettori professionali e autoreferenziali che si prendono troppo sul serio. Editor che scrivono romanzi su sé stessi, giornalisti che trasformano in romanzo la propria vita (di solito banalissima) da giornalisti, professori universitari che si autoritraggono tra aule e corridoi dipartimentali nelle improbabili e ridicole vesti di protagonisti di storie che si vorrebbero finte o, peggio ancora, interessanti.
Viviamo in un’epoca in cui i letterati hanno manifestamente rinunciato a sopravvivere a sé stessi, cioè la letteratura ha abdicato a qualsiasi pretesa d’eternità, puntando se mai ad essere diffusa ovunque.
segnalato da Alessandro Bruni