di Andrea Gandini. Economista, analista del futuro sostenibile.
I problemi della sanità in Italia sono noti. L’Italia spende poco (13,2% della spesa statale, rispetto a 20% di Germania, 15% di Francia, 22% di Stati Uniti) e l’ha ridotta negli ultimi 10 anni, per cui dal 2010 al 2019 i posti letto sono scesi da 215mila a 190mila, gli ospedali (-111, 10%), le terapie intensive (7 letti ogni 100mila abitanti, metà di quelli dei paesi europei più avanzati), i dipendenti del SSN (- 42.380, da 646.236 a 603.856, fonte Forum delle società scientifiche). Così è cresciuta la sanità privata e la libera professione “intramoenia” a pagamento che, in alcuni casi (ecografie ginecologiche,…), raggiunge il 42% delle prestazioni pubbliche e in 13 regioni è per alcune prestazioni tre volte superiore a quella erogata dal servizio pubblico (fonte Agenas).
A fronte di questi tagli non è mai stata assolta la promessa di potenziare le cure territoriali. Se molti ospedali (e pronto soccorso) sono andati in tilt con la Covid è stato perché è mancata questa prima trincea delle cure. I medici di famiglia hanno visto inoltre crescere gli adempimenti burocratici e sono diventati sempre più prescrittori di farmaci e visite specialistiche. Pochi si sono associati in team con dotazioni anche diagnostiche (come in Germania) dove, soprattutto per anziani e malati cronici, si fanno analisi del sangue, prelievi, ecografie, etc., riducendo gli accessi a ospedali e pronto soccorso.
Ora arriva il PNRR che prevede investimenti nella salute per 15,6 miliardi da qui al 2026 (8,2% di tutte le spese PNRR). Una parte sono per ospedali, tecnologie e digitale, un’altra per le 2mila tra Case della salute e Ospedali di comunità, per “rammendare” i servizi territoriali sguarniti negli ultimi 10 anni. Giorgio Palù nel suo ultimo libro (All’origine -del virus-, ed. Mondadori, euro 18) scrive che la “prima linea” di difesa (anche per i virus) sono questi servizi, il medico di famiglia che un tempo andava ‘al letto del malato’ e se ci fosse stata questa “trincea” territoriale avremmo avuto meno morti, meno sofferenza, non si sarebbero intasati pronto soccorso, ospedali e terapie intensive, per cui, dice Palù “sarà essenziale ripensare un sistema sanitario radicato nel territorio con presidi di prevenzione” (Palù propone anche il medico scolastico).
Nulla di tutto questo rischia di avverarsi in quanto il PNRR prevede spese solo per immobili e acquisti di attrezzature (“investimenti”) ma non per il personale classificato “spesa corrente”. Tre miliardi vanno a queste 2mila case di comunità, 4 miliardi ai 611 centri operativi. Il Governo dice che i soldi ci sono (un miliardo stanziato e 480 milioni per assumere 9.600 infermieri di famiglia, ma le Regioni dicono che in realtà mancano almeno 2,5 miliardi).
Ma la di là dei soldi, manca il personale a causa di una non programmazione tra Governo, Università e Regioni; servono infatti da un minimo di 26.550 infermieri e medici a un massimo di 39.800 (secondo le stime) entro il 2026 (anno di apertura), ma non si capisce da dove arrivino. L’Europa ha deciso che il “capitale umano” non è un investimento, ma una spesa corrente anche se sappiamo bene che la qualità di scuola, sanità e servizi si fonda soprattutto sulle persone. Una volta si dava priorità agli investimenti che producevano più occupati. Nei servizi il touch (tocco) è importante non meno del tech (tecnologia) e non è un caso se i ricchi si fanno servire da persone e non da macchine. Così da cittadini protagonisti tramite le nostre rappresentanze (sindacati, partiti, associazioni) rischiamo di diventare sudditi di decisioni prese troppo in alto per poterle cambiare (non solo per la salute).
Da un lato, come abbiamo detto, non si può assumere personale coi fondi PNRR (dall’altro le risorse nazionali previste per la Salute sono in riduzione da qui al 2026, quando le 2mila strutture devono aprire), ma anche se ci fossero i soldi (e non ci sono) non ci saranno infermieri e medici sufficienti perché quelli che escono dall’Università nei prossimi anni servono a mala pena a coprire l’attuale turn over fisiologico. Si pensa così di dirottarvi i 40mila medici di famiglia facendoli lavorare per metà tempo (18 ore) in queste nuove strutture e per metà nei loro studi, ma è molto problematico questo “switch” (chiudo lo studio e mi sposto) e non sarebbe lavoro aggiuntivo.
Che fare? Da un lato spendere di più nella salute come personale, dall’altro modificare i percorsi universitari. Nel 2020 si sono laureati solo 9.931 infermieri a fronte di 10.461 medici. Un paradosso se si pensa che il rapporto dovrebbe essere di 2 o 3 infermieri per un medico. E’ la prima volta che scendono sotto quota 10mila causa la scarsa attrattiva ma anche la carenza di tirocini che le Università non riescono a garantire. Nell’anno 2021-22 i posti disponibili sono cresciuti a 15mila, ma anche nel caso fossero tutti occupati poiché in media il 25% non si laurea, tra 3 anni ne usciranno 11mila, mentre il fabbisogno fisiologico del solo turn over per chi va in pensione è sui 20mila. L’abbandono maggiore avviene al 2° anno, c’è chi tenta di passare a Medicina o in altre lauree. Ma il vero problema è la scarsa attrattiva. Molti poi una volta laureati vanno all’estero o nel privato.
L’Italia, oltre a soffrire sempre più di una carenza demografica, è inoltre l’unico paese europeo che fa durare le specializzazioni mediche 4-5 anni (teoricamente più preparati, ma spesso senza pratica) invece di 3 anni come avviene all’estero e che non fa lavorare i neo- laureati (come avveniva un tempo con tirocini ben retribuiti post-laurea). Per accrescere l’attrattività di scienze infermieristiche si potrebbe introdurre nell’ultimo anno un tirocinio retribuito di 6 mesi in ospedale o nel territorio, che aumenterebbe anche l’apprendimento. Crescerebbe l’appeal del corso sia per il vantaggio economico che la sicura transizione al lavoro. Invece le proposte neo-liberali che circolano sono quelle di introdurre la professione intramoenia anche per gli infermieri dando un ulteriore colpo al servizio pubblico.
E ciò spiega perché manchino gli infermieri di famiglia per cui già nel 2020 dei 9.600 che si dovevano assumere, solo un terzo si è trovato. La trasformazione di una medicina territoriale in telemedicina e di medici che visitano sempre più per telefono (a cui la Covid ha dato grande impulso perché così sono stati consigliati di fare i medici dal Ministero) spiega il gigantesco afflusso che si è scaricato sui pronto soccorso che hanno mandato in tilt il servizio e portato alle dimissioni 1.200 medici e infermieri per stress in un anno. Sguarniti di personale si appaltano così ai privati i pronto soccorso (Cona di Ferrara, Mirandola,…), come si è fatto in Lombardia e Veneto, ovviamente a prezzi maggiori (la reperibilità costa 700 euro al giorno contro i 60 del pubblico).
Come abbiamo detto la mancata programmazione ha portato a questa carenza (solo in Emilia-R. manca un terzo dei medici nei pronto soccorso). E così mentre non avanza la proposta della pensione negli ultimi anni con part-time senior (retribuiti per intero con la pensione maturata che tanti vantaggi darebbe) si appalta ai privati, si assumono medici senza specializzazione o in pensione (sconfessando aulici discorsi sulla qualità e sulle procedure altrove ossequiate).
E in attesa del 2026 non cambiano le procedure assegnate dal Ministero ai medici di famiglia sconsigliati a visitare coloro che contraggono il virus (per non parlare dell’impossibilità di stare accanto ad un parente in via di trapasso), incentivando una prassi sempre più digitale e da telemedicina anche per il resto delle malattie, che vede trasformarsi il medico di famiglia in un impiegato che prescrive e telefona. Una tendenza anche del Servizio Inglese (NHS) che da 2 anni vede i medici di base parlare coi propri pazienti solo tramite il telefono, che mandano alla surgery le prescrizioni mediche che il malato (anche se con la febbre) deve andarsi a prendere. Alcuni hanno assunto medici stranieri (africani, indiani, dell’est Europa, sudamericani, italiani) che fanno le poche visite necessarie, come se il “faccia faccia”, il “touch” fosse meno anziché più. Ciò spinge, chi può, verso i privati (anche in Italia) per cui cresce costantemente la spesa sanitaria privata o si rivolge ai farmacisti (che erogano servizi una volta dei medici di famiglia) e fanno mini diagnosi.
Cresce la delusione e la sfiducia nel futuro e cala la soddisfazione nella nostra sanità pubblica (60%, ma in Germania è 85%). Ma là si spende di più e la medicina del territorio è una vera trincea e il rapporto personale viene considerato “qualità”. Benvenuti nel nuovo mondo digitale sanitario.