Sintesi di Alessandro Bruni tratta da Accompagnare: un altro modo per dire “cura” di Sandro Spinsanti. Pubblicato nel blog dell'autore il 19 luglio 2022 e come instant book in forma completa in Madrugada.blogs del 23 luglio 2022. Focus senilità Focus fine vita
Se l’accompagnamento caratterizza tutto il percorso di cura, quando la patologia si avvia verso la conclusione della vita diventa un’assoluta priorità. Questa considerazione acquista il valore di un impegno stringente se è abbinata alla consapevolezza che in Italia si muore male. È la testimonianza concorde di studiosi di scienze sociali, di clinici e soprattutto di cittadini che hanno visto morire i propri cari. Ancor più che il numero dei morti, sono le modalità del decesso che ci scandalizzano.
Queste modalità del morire, che non esitiamo a qualificare come disumane e indegne, sono state un effetto collaterale dell’emergenza?
Ma se l’emergenza ci ha fatto scoprire gli aspetti deformi della normalità, il nostro sogno non può essere quello di tornare come prima. Dobbiamo tendere a una diversa normalità. Ciò vuol dire, nel nostro caso, a un diverso rapporto tra i trattamenti curativi e quelli palliativi nell’intero processo terapeutico. Perché le disfunzioni che si sono ingigantite durante l’emergenza sono figlie legittime della normalità.
Basta interrogare in profondità i malesseri legati alla pratica delle cure palliative per identificare i punti nevralgici del cambiamento necessario. Il primo è sicuramente la marginalità del trattamento palliativo, considerato come alternativo e non simultaneo agli interventi terapeutici. Le cure palliative ancor più che marginali, addirittura residuali. Responsabile è l’equiparazione che induce a considerare le cure palliative in senso ristretto come sinonimo della gestione del trapasso: il momento – tendenzialmente sempre più posticipato – in cui le cure mediche si ritirano e passano la mano. Di conseguenza, nominare la palliazione equivale a evocare il fantasma della morte: un’evenienza dalla quale sempre più si rifugge.
- Cure palliative o leniterapia? In Italia, il significato di Cure Palliative è poco e mal conosciuto. “Palliativo” è un termine che viene interpretato come inutile o poco efficace. Le Cure Palliative sono, invece, discipline, terapie e tecniche nate per aiutare le persone che stanno vivendo la fase terminale di una malattia, dal punto di vista fisico, psicologico, relazionale, sociale, spirituale.
- Cure palliative, il significato Le Cure Palliative hanno una storia etimologica curiosa, legata al mondo cristiano-romano. Il termine “palliativo” deriva, infatti, dal latino pallium (mantello) ed è stato scelto per indicare l’attenzione dedicata alla persona malata considerandone la globalità dei bisogni: fisici, spirituali, psicologici e sociali. In altre parole, le Cure Palliative rispondono al concetto: curare la persona malata nella sua interezza, sempre, anche se non può guarire.
- Leniterapia, il neologismo Per rendere più accessibile il termine “Cure Palliative”, FILE ha creato il neologismo “Leniterapia”, riconosciuto dall’Accademia della Crusca, una delle maggiori autorità linguistiche italiane. “Leniterapia” deriva dal verbo latino lenire, mantenuto nella lingua italiana accanto ai più usati “attenuare”, “mitigare” e “alleggerire”. Il lenimento, per storia etimologica, porta con sé l’idea della dolcezza, della cura amorevole, della solidarietà e della vicinanza affettiva. Ma “Leniterapia” vuole rappresentare, soprattutto, un paradigma scientifico che abbraccia un’area di saperi, culture e conoscenze relative alle Cure Palliative che, tuttavia, oltrepassano l’area specifica della medicina, coinvolgendo le scienze infermieristiche, la filosofia della scienza, la filosofia morale, la bioetica, la teologia, la storia, l’antropologia, la sociologia e anche l’architettura, laddove si occupi di considerare e progettare spazi e strutture adatti alla ricerca di una qualità della vita accettabile per chi soffre e per le famiglie dei pazienti (Hospice). Per saperne di più: Enciclopedia Treccani, Accademia della Crusca link n.1
Cure palliative simultanee e non sequenziali: è la formula corretta, ma ancora lontana dall’essere tradotta in pratica. L’ideale è che i valori che ispirano la palliazione siano parte integrante di tutta la medicina, non di un suo segmento. Perché la vita sana non è unicamente quella che si contrappone alla condizione patologica. Essere in salute è anche saper convivere con la cronicità, che ormai statisticamente connota la vita di un numero crescente di persone. E salute significa anche strutturare la propria esistenza garantendo non solo la quantità di giorni che ci è dato vivere, ma anche la loro qualità. Compresa la qualità del morire: perché la morte è una dimensione della vita.
Riportare la palliazione a un pieno diritto di cittadinanza nel cuore stesso della medicina è un progetto ambizioso: buona cura. Una cura che ambisce a presentarsi non come una semplice riparazione, ma come un progetto “sartoriale”, finalizzato a confezionare un abito su misura per ciascuna persona. La medicina deve affrontare il pluralismo etico di una società che è diventata multietnica e multietica, ma ben di più: le buone decisioni etiche devono essere tagliate su misura delle diverse biografie, e quindi anche all’interno di una stessa cultura le buone decisioni sul versante della cura non possono essere fatte in serie, ma sono uniche come un’opera d’arte.
Un primo elemento che ci inducono a valorizzare è di non rappresentare le cure palliative nel territorio della medicina come una riserva, nella quale si accede quando le cure attive si arrendono e la medicina curativa constata che “non c’è più niente da fare”. L’accettazione della cura in modalità di palliazione si presenta come un processo, che ha bisogno di tempo, di spiegazioni, di consapevolezza; riguarda il malato stesso, ma in misura non minore i suoi familiari, che spesso ambiscono a poter dire alla fine: “Si è fatto tutto il possibile”. Anche quando quel tutto ha portato solo sofferenze aggiuntive. La condivisione da parte dei familiari anche alla rinuncia alla nutrizione artificiale, diventata senza senso e causa di malessere, è il traguardo finale di questo accompagnamento.
Questo intreccio tra cure palliative e interventi curativi ci induce a domandarci se dobbiamo considerare la palliazione come una specialità da allineare a tante altre – per lo più suddivise per organo, oltre alla divisione fondamentale tra chirurgia e medicina interna – o come una competenza richiesta a tutti i curanti. O quanto meno una sensibilità propria di tutti. Non esistono cure “rispettose” che non si siano prima misurate con l’esigenza della “sobrietà”, intesa nel senso di esclusione di ciò che clinicamente non è appropriato.
L’accompagnamento che dà sostanza alla cura nella fase finale richiede la collaborazione sinergica di diversi professionisti. Le gerarchie devono lasciare il posto a una concertazione, perché spesso chi è più vicino al malato nel senso dell’assistenza può cogliere bisogni e opportunità che sfuggono a chi spetta la regia clinica del trattamento.
Spesso l’attenzione si concentra sul less, “meno”, ovvero su ciò che è opportuno o consigliato omettere di fare. Il centro di gravità è invece quel more che ne costituisce l’alternativa.
Scegliamo di stare con il paziente, in silenzio, l’accompagniamo alla morte con la sola nostra presenza, di fronte a quell’evento così grande e alla sua inevitabilità e improcrastinabilità. Rimanere lì accanto, in silenzio, senza fare altro, è la cosa giusta, forse quella che tutti noi vorremmo in fine vita, qualcuno vicino che ci tenga la mano e faccia una carezza.
Filantropia? Benevolenza? Medicina umanistica? No: semplicemente cura; quella cura che la buona medicina può e deve poter fornire. Le risorse della medicina, nella sua migliore efficienza, le hanno prolungato la vita. Ma ciò non le ha impedito di arrivare a un punto in cui la parola più sensata è “Basta”.
L’aspirazione a morire “in braccio alle Grazie” non è velleitaria: è un evento possibile. Compresa quella consapevolezza che induce a far proprio il senso del limite raggiunto. Ricorrendo ancora una volta alla metafora della tessitura e del lavoro di cucito, ci viene incontro l’immagine della rammendatrice che, giunta alla fine dell’opera, taglia il filo con i denti. Per questa morte auspicabile una condizione è anche quella di poter venire accompagnati. Sullo sfondo vediamo delinearsi il lavoro di costruzione di una relazione fiduciale. Che si traduce in un accompagnamento di lunga durata: durante il percorso curativo e oltre, nell’ambito delle cure palliative. Senza soluzione di continuità.
È spesso citata la nota sentenza di Michel de Montaigne: “Se abbiamo bisogno di una levatrice (in francese: sage femme) per metterci al mondo, abbiamo molto bisogno di un uomo ancor più saggio per uscirne”. Il gioco di parole veicola un’intuizione profonda: la cura abbraccia l’intero arco della vita umana. L’accompagnamento del processo del morire non è altra cosa che la cura in sé, una sua particolare sottospecie. Che, come appunto la cura, richiede competenza.
Commento di Alessandro Bruni. L'argomento non è certo tra quelli che ricevono molti link. La nostra società, ma potremmo dire tutta la storia umana, ha sempre cercato di scansare il tema della morte. Tra ieri e oggi la differenza è nel fatto che oggi si muore in luoghi socialmente deputati alla terminalità della vita, in case di riposo, in hospice. Si muore sempre meno a casa e l'emergenza pandemica ha finito per rendere questi luoghi sempre più isolati per paura del contagio: così ineluttabilmente si muore soli senza la presenza dei propri cari. Il problema sociale non è piccolo, come Spinsanti ha sottolineato. Il paziente non ha voce in capitolo quando dice “basta” e purtroppo si riduce sempre più il margine umanamente condiviso dell'accompagnamento alla morte. In una casa di riposo non è certo il medico responsabile ad assicurare la sua presenza al trapasso, dato che il sistema è strutturato in modo tale che la sua presenza si limita al fronte terapeutico e alla dichiarazione di morte. La presenza di accompagnamento, se non è praticata dai familiari, rimane temporalmente nella disposizione di infermieri e OSS. Ma anche gli infermieri oggi sono in numero limitato e contingentato e recentemente anche le OSS. Questi operatori sono gravati da mansioni di cura sempre più difficili dovendo seguire un numero di pazienti elevato: si trovano nella condizione di dover decidere se seguire i pazienti in relazione alla loro terminalità. Logico che devono prestare maggiore attenzione a chi ha maggiori possibilità di vita. Una logica stringente sul piano di una efficienza basata sul favorire la vita, sui numeri e sul fattore economico e non sulla considerazione della singola persona. Un sistema sostanzialmente disumano (e non per colpa degli operatori, ma del sistema nel suo complesso). Consideriamo questi fatti in sequenza: i famigliari si rendono conto che seguire la nonna a casa significa sconvolgere la loro vita e dover affrontare un percorso di accompagnamento alla vecchiaia che condiziona figli e parenti tutti. Vista l'impossibilità materiale a svolgere questo compito decidono di trasferire la nonna in una casa di riposo “dove può avere le cure adeguate” che loro non possono fornire. Di fatto è una violenza mascherata di altruismo e condizionata dal fatto che non si hanno altre soluzioni praticabili. Nel giro di alcuni mesi le visite promesse si diradano e la nonna o si adegua al nuovo ambiente o viene di fatto lasciata sola. Non intendo sottolineare le colpe dei singoli (familiari o operatori che siano), ma le colpe dell'insieme della società che al posto di favorire la permanenza nella propria casa fino alla fine dei propri giorni ha deciso di creare luoghi artificiali la cui alta retta altro non è che la giustificazione all'aver fatto quanto di meglio si poteva fare per il proprio congiunto (brutalmente, si paga per non vederli declinare e morire). La nonna in questione troverà, si spera, una nuova familiarità con le persone che la accudiscono nella casa di riposo (in pratica soprattutto le OSS a causa del tempo pro capite che questi operatori dedicano nell'alimentarla, nel cambiarla, nel parlare loro del quotidiano). C'è solo da augurarsi per la nonna parcheggiata che trovi in infermieri e OSS persone presenti, preparate e disponibili a tenere loro la mano nell'estremo transito. Per questo la palliazione e l'accompagnamento alla morte dovrebbero far parte della vita, anche perché oggi queste fasi sono spesso temporalmente anche lunghe e il “ora basta” del paziente troppo spesso non rispettato per assenza di cultura e di competenza da parte del sistema sociale.