di Massimo Recalcati. Filosofo e analista lacaniano della società. Pubblicato nel blog dell'autore e in la Repubblica del 30 ottobre 2016.
In Italia il tema dell'eutanasia è un tabù. Impossibile ragionarci senza che il richiamo all'ideologia ottunda ogni forma di pensiero libero. Eppure l'interrogativo che esso pone è chiaro, impellente e inaggirabile: è giusto che la vita umana decida di porre fine a sofferenze che non è più in grado di sopportare e che non comportano nessuna speranza? Riconoscere questa giustizia — riconoscere il diritto a una morte giusta e degna — cancella fatalmente ogni debito verso coloro o colui — Dio, in una prospettiva religiosa — che ci ha donato la vita? È vero: io non sono padrone della mia vita, né del mio corpo: non ho scelto di vivere, non ho voluto questo corpo, non ho deciso la classe sociale di appartenenza, il colore della mia pelle.
La vita viene alla vita — come ci ha spiegato bene l'esistenzialismo filosofico — gettata nel mondo in una condizione di spossessamento: nessuno di noi è un ens causa sui, nessuno di noi è causa della propria vita. La vita viene sempre dall'Altro. Ma la constatazione ontologica che la mia vita non è padrona della sua origine può suffragare il rifiuto di donare la morte a vite straziate e piegate da malattie che non lasciano speranza alcuna?
segnalato da Alessandro Bruni
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