di Yaryna Grusha Possamai. Pubblicato in Linkiesta il 2-3 agosto 2022.
Leopoli-Kyjiv, Terzo giorno. L’arrivo nella capitale e il cuore che batte come per la persona che si ama
Non so se per un giorno intero si possono calcolare le otto ore passate in treno da Leopoli a Kyjiv. Sul binario più bagagli che passeggeri. Gli ucraini sfollati rientrano nelle loro case dall’estero o dall’Ucraina occidentale con le valigie e i loro animali domestici, altrettanto sfollati, altrettanto traumatizzati. Ma non sono loro i veri protagonisti di questo addio. Sono i militari, che salutano mogli e figli, i militari con le fasce alle gambe sono venuti alla stazione in attesa di un compagno in licenza. Leopoli saluta tutti con la pioggia fitta.
Il treno viaggia lento. Da Leopoli a Kyjiv in tempi normali ci mettevamo circa cinque ore, adesso sono otto ore senza soste, senza entrare nelle città. In alcuni posti il treno viaggia a passo d’uomo. Riesci perfino a distinguere il nero dei semi dei girasole, adornati dal giallo intenso nei campi, tra una città e l’altra, tra un verde e l’altro. Sulle fermate i cartelli: buon viaggio! Slava Ukraini! Bandiere e colori della bandiera ovunque. Le distruzioni non si vedono da queste parti. Controllo sull’app dove mi trovo e sono un piccolo punto blu nel verde della mappa che si avvicina alla capitale.
Nello scompartimento siamo in sei, siamo tutti gentili l’uno verso l’altro e siamo tutti in vibrante attesa dell’arrivo a Kyjiv. Manca un’ora e siamo nei pressi di quelle zone dove i kyjiviani avevano le seconde case, dove scappavano dalla calda capitale estiva per coltivare il loro orto per poi magari rimanerci per sempre. Borodyanka, Klavdievo, Bucha, Irpin’.
Il treno rallenta a Bucha, in lontananza si vedono alcune case malconce, con i detriti raccolti in un angolo del cortile, i proprietari sono tornati a casa o non sono mai andati via o sono sopravvissuti e stanno cercando di mettere in piedi una vita. Vicino Kyjiv non c’è una traccia di pioggia. Il sole, l’oro colato, accarezza le punte degli alberi che sono verdi nonostante le ferite, nonostante il dolore, nonostante la tragedia.
Pensavo che a far battere il cuore così potesse riuscirci solo la persona che ami, invece lo può fare anche una città. Si chiama Kyjiv.
Scendiamo dal treno, arrivato in orario, una cosa molto rara di questi tempi. Il mio primo appuntamento con Kyjiv è molto timido e breve. Inizia con il controllo passaporti prima di entrare in stazione, poi con il controllo bagagli e solo dopo con un fugace bacio sulla piazza principale davanti alla stazione.
Dovrei affrettarmi, c’è il coprifuoco, ma non riesco a muovermi. Chiamo la mia quasi sorella, piango, rido e poi piango di nuovo. Mi raccolgo per chiamare un taxi, arriva un ragazzo gentile, carica la mia valigia, scherza che non è per niente leggera per una donna. In viaggio capisce che sono una turista che fotografa la città dal finestrino della macchina e allora comincia a raccontarmi delle battaglie per Kyjiv. Potrei essere una turista, ma sono anche una filologa e capisco subito che non è di queste parti. Infatti è della regione di Donec’k, arrivato a Kyjiv nel 2018 con la famiglia. Era fuggito da Kyjiv il 25 febbraio, è rientrato il 7 aprile. Ognuno qui ha la sua storia su dov’era e che cosa faceva il 24 febbraio 2022.
Mi sono chiesta più volte che cosa avrei fatto io il 24 febbraio, se non mi fossi trasferita in Italia nel 2015. Sarei rimasta e Kyjiv? Sarei scappata via? Avrei continuato a lavorare con i giornalisti italiani, come ho fatto nel periodo del Majdan nel 2013 e 2014? Non ho una risposta.
Il tassista mi aiuta a scaricare la valigia, la porta sulle scale fino al portone. Io entro in quell’appartamento attraverso il quale ho vissuto i primi giorni della guerra. Oltre lo schermo vedevo le finestre ricoperte dallo scotch di carta per sopportare l’onda d’urto, ora vedo i fiori sul davanzale che fioriscono come il verde fuori dalla finestra del treno, nonostante tutto.
L’appuntamento con l’appartamento della mia quasi sorella è intenso e non dovrebbe essere così fugace, ma viene interrotto dalla sirena e io mi sposto nell’angolo più sicuro della casa, e ora sono i miei amici ucraini a scrivermi come sto, e per una volta non io a loro, quando scattava la sirena. Mi dicono cosa fare e cosa non fare. Ora ci siamo scambiati i ruoli. La sirena dura un’ora e scatta in tutte le regioni d’Ucraina.
Kyjiv la scampa, posso anche spostarmi dall’altra parte del letto, opposta dell’angolo più sicuro, e mettermi in posizione orizzontale. Domani mi aspetta l’ultima tappa del viaggio. Domani rientro, torno, vado (qual è il verbo giusto nel mio caso?) a casa, o almeno a casa dei miei genitori.
Kyjiv-Ivankiv, Quarto giorno. Ritrovo, tra le macerie, il punto in cui per me è tutto cominciato. E mi scopro orfana di me stessa
Se Kyjiv è la faccia della persona che ami, il resto dell’Ucraina è il suo corpo. Ferito, crivellato, bruciato, con le cicatrici che lasceranno il segno per sempre. All’uscita dalla capitale ci sono posti di blocco uno dopo l’altro, le montagne di sabbia, i blocchi di cemento, i cavalli di Frisia, chiamati anche ricci cechi. I ponti saltati in aria. La macchina prende un ponte provvisorio per arrivare dall’altra parte. Sul ciglio delle strade i resti delle macchine e i carri armati bruciati, come resti di animali feroci abbattuti. O almeno di quel che resta degli animali. La gente li porta via a pezzi come segno della vittoria. Anche i fiori che crescono in mezzo si alzano vittoriosi sopra quelle macerie. Solo pochi mesi fa su questa strada passavano lunghe colonne russe. Quel lungo verme che succhiava la vita di questi paesi e che all’Est dell’Ucraina continua ancora a succhiare.
Tra me e quella strada c’è solo la distanza di un finestrino della macchina, non c’è più la distanza di chilometri e di uno schermo del telefono. La quarta parete è caduta. Lo schermo è diventato il presente, qui-e-ora. Conosco a memoria ogni curva di quella strada, come il corpo della persona che ami, eppure è diversa con quelle macerie e quei resti di carri armati sui bordi della strada. Mi sto avvicinando al mio punto zero, al punto della partenza di tutte le partenze, quasi tutte, perché sono nata sfollata, e sono molto grata che a portarmi è la coppia di miei amici al volante e al sedile del passeggero e io, docile, sul sedile posteriore.
Loro sono i miei due eroi, eroi ne ho tanti, ma loro sono quelli speciali. Quelli che non sono mai andati via, che sono rimasti a casa nei pressi della capitale, per aiutare l’esercito, per cucinargli i pasti, per fare i turni di notte, per togliere i punti dalle case, quelli che aiutavano l’artiglieria russa ad aggiustare il tiro. Sono rimasti a casa per mantenere i gatti del gattile e i cani randagi, per scendere ogni volta nel rifugio, portando con sé la gatta, per dormire vestiti per quasi due mesi o per non dormire proprio, per pensare se usare il gas per cucinare o non farlo perché in caso di bombardamento la casa poteva saltare in aria per distinguere i suoni: questa è antiaerea ucraina, questi invece sono i missili russi. Sono rimasti a casa per scrivermi che dopo mesi che era finita non riuscivano a sopportare tranquilli un temporale. Loro sono il mio esercito personale, i miei ZSU (Forze armate dell’Ucraina).
Qui c’è un passaggio in cui le parole per descriverlo sono spente. La videocamera del cellulare della mia amica è stata accesa per riprendere tutto e quel video lo tengo per me.
Qualche mese fa sarei potuta diventare d’un tratto orfana e lo ero diventata più volte quando non sentivo per giorni i miei genitori, perché i russi che avevano occupato le nostre zone avevano abbattuto tutti i ripetitori. Invece eccoli qua, i miei funghetti, eccoli qua che mi abbracciano. La metafora dei miei genitori come funghetti è apparsa in uno dei miei primi testi per Linkiesta (Le Noci) e l’avevo strappata con tanta sofferenza da me dopo anni che la tenevo dentro.
Poi c’è stato un momento come quello dei film a lieto fine. Una tavola da pranzo apparecchiata sotto la chioma verde dell’albero delle noci, descritto sempre nel testo “Le noci”, il borshch della mamma, preparato con tutta la verdura coltivata nel loro orto e i discorsi tra i miei genitori e i miei amici che vividamente si scambiavano la loro esperienza di vita durante la guerra. Come si nascondevano dai bombardamenti, come sopravvivevano senza la luce, senza acqua corrente, con una sola dispensa a disposizione perché i negozi erano stati derubati dai soldati russi. Com’era quando i russi con i fucili puntati si erano presentati a casa mia e con quegli stivali sozzi hanno calpestato i tappeti di casa mia, costruita mattone su mattone da mio nonno. Capisco, che certe cose le sento per la prima volta, perché i miei genitori avevano preferito tenermele nascoste. Loro parlavano e io ero solo un’ascoltatrice.
In sottofondo c’è la radio accesa, dove ogni trenta minuti passano le notizie dal fronte. E anche noi a tavola non abbiamo parlato di nient’altro che di guerra. Siamo tutti cambiati. Assieme alle nostre facce e corpi e alle facce e corpi delle persone che amiamo. Siamo tutti segnati nel profondo e a queste cicatrici non si vede ancora una fine.
I miei amici ripartono con il bagagliaio pieno di frutta e verdura raccolta al momento dall’orto dei miei genitori. E io rimango qui, al mio punto di partenza, non orfana di genitori, ma ormai orfana di una persona, di quella che ero e che non lo sarò mai più.
segnalato da Alessandro Bruni