di Andrea Gandini. Economista, analista del futuro sostenibile.
I problemi della sanità in Italia sono noti
L’Italia spendeva prima del Covid nel 2019 il 6,4% del Pil (Germania 9,9%, Francia 9,3% ma anche Spagna e Portogallo spendevano più di noi), in termini di spesa pro-capite sono circa 2mila euro in meno. Ciò porta ad un minore copertura in alcuni servizi essenziali (odontoiatria, occhiali, non autosufficienti,…). Con il Covid siamo risaliti al 7% del Pil (come nel 2010) ma per spese di emergenza e vaccini. La finanza pubblica indica un 6,1% di spesa sul Pil al 2025, inferiore a quello del 2019. Crescono così le spese private (erano 40 miliardi nel 2019, 2,3% del Pil). Gli anziani cresceranno dal 24% attuale al 35% nel 2040 ed è evidente che ciò comporterà una spesa maggiore e la più bassa natalità al mondo (1,2 figli per donna) non aiuta, così come il fatto che i pensionati hanno quasi raggiunto i lavoratori, minando le potenziali risorse future.
La copertura della spesa sanitaria pubblica è ancora alta (73,9%, fonte Fiaso, federazione Aziende sanitarie) ma è scesa del 4,5% dal 2010 al 2019. L’ultima legge di bilancio (2021) dice che sarà potenziata ma in realtà a legislazione vigente la spesa sanitaria scende dal 7,5% del Pil del 2020 (in cui ci sono state spese eccezionali per vaccini) al 7,3% del 2021, al 6,7% nel 2022, al 6,3% nel 2023 e al 6,1% nel 2024, tornando così ai valori pre-pandemia. Del resto se si ha un lato debito pubblico e si spende per armi e aiuti per le bollette energetiche non rimane nulla per sanità e scuola. Occorre inoltre considerare che, in assenza di una pace in Ucraina, nei prossimi anni proseguiranno gli aumenti dovuti all’alta inflazione sia per i costi dell’energia che adeguamenti contrattuali, per cui il rischio è una ulteriore diminuzione del personale, calato già di 40mila unità negli ultimi 10 anni, a causa del blocco del turn over iniziato col governo Berlusconi 2 nel 2005 e proseguito per 14 anni (ancorando il costo del personale a quello del 2004) fino al Governo Conte 1 che ha aumentato le assunzioni del 10%. I pensionati sono stati dal 2015 al 2020 37.800 a fronte dei 24.752 specializzandi entrati nel SSN. Tra la fine del 2020 e il 2021 c’è stata poi un’accelerazione delle dimissioni volontarie (2.886 unità, +39% sul 2020) per lo stress di lavoro negli ospedali (per Covid) e la perdita di circa 5mila sanitari non vaccinati. Uno studio di Milena Gabanelli ha mostrato come nel periodo 2022-2027 dei 103.092 medici assunti nel SSN vanno in pensione 29.331 e altri 13mila ne servono per il blocco del turn over (totale 42.331), mentre in teoria dalle scuole di specializzazione ne arrivano 42.086. Sulla carta sono sufficienti, in realtà ne mancheranno moltissimi perché basta guardare a ciò che accade in Lombardia coi medici di famiglia: i posti sono 626, al test si sono presentati in 502, hanno poi accettato in 379 e chi frequenta sono in 331, cioè metà. Del resto la borsa di studio è di 11mila euro l’anno (corso triennale post laurea) contro i 26mila della specializzazione. Poi ci sono quelli che vanno all’estero dove la paga è migliore. La realtà è che ne mancheranno moltissimi specie di famiglia, distruggendo quello che era uno dei migliori sistemi sanitari al mondo. Per gli infermieri è la stessa cosa tra chi va in pensione (21mila) e blocco del turn over (13,2mila) e altri 20mila per realizzare le mille case di comunità ne servono da 54mila a 61mila. In teoria ne arrivano dalle scuole di specialità 61mila dal 2022-2027, ma nella pratica ne mancheranno tantissimi.
Ciò spiega gli allarmi di Anaao (medici) che stimano una carenza tra pensionamenti e dimissioni al 2024 di 40mila sanitari e spiega il fenomeno in atto delle cooperative di medici “a gettone”, soprattutto nei pronto soccorso, che percepiscono in media 50-90 euro all’ora e possono lavorare per 12-24-36-48 ore consecutive (diurne-notturne) con stipendi che sono doppi/tripli di quelli standard, ma creando gravissime disfunzioni (oltre ai costi) in quanto si tratta di medici con minore esperienza, neolaureati, stranieri (con problemi di lingua). Secondo la società di medicina d’urgenza uno studio su 31 ospedali stima che durante i week end e le notti la possibilità di trovare un medico “a gettone” sia ormai nei pronto soccorso del 50%.
Al di là degli evidenti errori nella programmazione sia del Ministero della Salute (fino al 2019) e dell’Università che ha prodotto un numero minore di laureati in medicina e relative specializzazioni (a parità di docenti universitari 40 anni fa erano molto di più a laurearsi), esiste ora anche un problema di appetibilità per esempio per la medicina di urgenza (pronto soccorso) in quanto su 886 posti di specializzazione solo 445 sono stati scelti dai neolaureati (50%). I posti di specializzazione (fonte Anaao) erano quest’anno 14.378 ma il 12% non sono stati assegnati. Le specialità con posti non assegnati sono virologia (74%), patologia clinica (63%), radioterapia (62%), chirurgia toracica (35%), chirurgia generale (18%), malattie infettive (15%), anestesia (14%), mentre il pieno sono in posti forti nel privato come chirurgia plastica, dermatologia, oftalmologia. Gli specializzandi al pronto soccorso prendono 1.300 euro al mese, quanto guadagna un “gettonista” in un giorno.
Il blocco del turn over spiega perché oggi più della metà dei medici ha più di 55 anni, la percentuale più elevata d’Europa, superiore di oltre 16 punti alla media Ocse. Ovviamente in sanità c’è una correlazione diretta tra personale e servizi reali al cittadino, anche se l’apologia mediatica del digitale e della telemedicina vuol convincerci del contrario. La crisi del personale porta poi ad abbandonare per primi proprio i servizi territoriali meno ambiti, che sono quelli territoriali (rispetto agli ospedalieri) e quelli periferici rispetto a quelli cittadini. Per questo occorre in una situazione di emergenza che si vada oltre l’immatricolazione aggiuntiva degli iscritti a Medicina (pur necessaria) che avrà però effetti tra 6-9 anni, la quale consenta di trovare risorse in tempi brevi che possono venire solo da due flussi:
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L’assunzione di laureati in Medicina abilitati all’esercizio della professione e anche degli specializzandi nell’ultimo anno di formazione con contratti libero-professionali o a termine, una sorta di praticantato retribuito che non è una misura tampone ma un modo di apprendere dalla esperienza che favorisce il completamento della formazione;
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Il part-time senior, la possibilità per chi (infermiere o medico o altra figura) si trova negli ultimi 3 anni di lavoro, di svolgere un part-time (retribuito pieno coi contributi pensionistici maturati) e di poter poi proseguire nel lavoro (per chi vuole) anche oltre il termine pensionistico, in quanto si stima che lavorando part-time, moltissimi lavoratori anziano siano disponibile a lavorare più anni di quanto previsto dalla scadenza naturale, garantendo all’azienda la parte più importante delle loro professionalità e facendola risparmiare, in modo che così possa assumere un giovane a full time, potenziando a parità di spesa i servizi.
L’Italia spende poco (13,2% della spesa statale, rispetto a 20% di Germania, 15% di Francia, 22% di Stati Uniti) e l’ha ridotta negli ultimi 10 anni, per cui dal 2010 al 2019 i posti letto sono scesi da 215mila a 190mila, gli ospedali (-111, 10%), le terapie intensive (7 letti ogni 100mila abitanti, metà di quelli dei paesi europei più avanzati), i dipendenti del SSN (- 42.380, da 646.236 a 603.856, fonte Forum delle società scientifiche). Così è cresciuta la sanità privata e la libera professione “intramoenia” a pagamento che, in alcuni casi (ecografie ginecologiche,…), raggiunge il 42% delle prestazioni pubbliche e in 13 regioni è per alcune prestazioni tre volte superiore a quella erogata dal servizio pubblico (fonte Agenas).
A fronte di questi tagli non è mai stata assolta la promessa di potenziare le cure territoriali. Se molti ospedali (e pronto soccorso) sono andati in tilt con la Covid è stato perché è mancata questa prima trincea delle cure. I medici di famiglia hanno visto inoltre crescere gli adempimenti burocratici e sono diventati sempre più prescrittori di farmaci e visite specialistiche. Pochi si sono associati in team con dotazioni anche diagnostiche (come in Germania) dove, soprattutto per anziani e malati cronici, si fanno analisi del sangue, prelievi, ecogografie, etc., riducendo gli accessi a ospedali e pronto soccorso.
Ora arriva il PNRR che prevede investimenti nella salute per 15,6 miliardi da qui al 2026 (8,2% di tutte le spese PNRR). Una parte sono per ospedali, tecnologie e digitale, un’altra per le 2mila tra Case della salute e Ospedali di comunità, per “rammendare” i servizi territoriali sguarniti negli ultimi 10 anni. Giorgio Palù nel suo ultimo libro (All’origine -del virus-, ed. Mondadori, euro 18) scrive che la “prima linea” di difesa (anche per i virus) sono questi servizi, il medico di famiglia che un tempo andava ‘al letto del malato’ e se ci fosse stata questa “trincea” territoriale avremmo avuto meno morti, meno sofferenza, non si sarebbero intasati pronto soccorso, ospedali e terapie intensive, per cui, dice Palù “sarà essenziale ripensare un sistema sanitario radicato nel territorio con presidi di prevenzione” (Palù propone anche il medico scolastico).
Nulla di tutto questo rischia di avverarsi in quanto il PNRR prevede spese solo per immobili e acquisti di attrezzature (“investimenti”) ma non per il personale classificato “spesa corrente”. Tre miliardi vanno a queste 2mila case di comunità, 4 miliardi ai 611 centri operativi. Il Governo dice che i soldi ci sono (un miliardo stanziato e 480 milioni per assumere 9.600 infermieri di famiglia, ma le Regioni dicono che in realtà mancano almeno 2,5 miliardi). Ma la di là dei soldi, manca il personale a causa di una non programmazione tra Governo, Università e Regioni; servono infatti da un minimo di 26.550 infermieri e medici a un massimo di 39.800 (secondo le stime) entro il 2026 (anno di apertura), ma non si capisce da dove arrivino. L’Europa ha deciso che il “capitale umano” non è un investimento, ma una spesa corrente anche se sappiamo bene che la qualità di scuola, sanità e servizi si fonda soprattutto sulle persone. Una volta si dava priorità agli investimenti che producevano più occupati. Nei servizi il touch (tocco) è importante non meno del tech (tecnologia) e non è un caso se i ricchi si fanno servire da persone e non da macchine. Così da cittadini protagonisti tramite le nostre rappresentanze (sindacati, partiti, associazioni) rischiamo di diventare sudditi di decisioni prese troppo in alto per poterle cambiare (non solo per la salute).
Da un lato, come abbiamo detto, non si può assumere personale coi fondi PNRR (dall’altro le risorse nazionali previste per la Salute sono in riduzione da qui al 2026, quando le 2mila strutture devono aprire), ma anche se ci fossero i soldi (e non ci sono) non ci saranno infermieri e medici sufficienti perché quelli che escono dall’Università nei prossimi anni servono a mala pena a coprire l’attuale turn over fisiologico. Si pensa così di dirottarvi i 40mila medici di famiglia facendoli lavorare per metà tempo (18 ore) in queste nuove strutture e per metà nei loro studi, ma è molto problematico questo “switch” (chiudo lo studio e mi sposto) e non sarebbe lavoro aggiuntivo.
Che fare? Da un lato spendere di più nella salute come personale, dall’altro modificare i percorsi universitari. Nel 2020 si sono laureati solo 9.931 infermieri a fronte di 10.461 medici.
Un paradosso se si pensa che il rapporto dovrebbe essere di 2 o 3 infermieri per un medico. E’ la prima volta che scendono sotto quota 10mila causa la scarsa attrattiva ma anche la carenza di tirocini che le Università non riescono a garantire. Nell’anno 2021-22 i posti disponibili sono cresciuti a 15mila, ma anche nel caso fossero tutti occupati poiché in media il 25% non si laurea, tra 3 anni ne usciranno 11mila, mentre il fabbisogno fisiologico del solo turn over per chi va in pensione è sui 20mila. L’abbandono maggiore avviene al 2° anno, c’è chi tenta di passare a Medicina o in altre lauree. Ma il vero problema è la scarsa attrattiva. Molti poi una volta laureati vanno all’estero o nel privato.
L’Italia, oltre a soffrire sempre più di una carenza demografica, è inoltre l’unico paese europeo che fa durare le specializzazioni mediche 4-5 anni (teoricamente più preparati, ma spesso senza pratica) invece di 3 anni come avviene all’estero e che non fa lavorare i neo- laureati (come avveniva un tempo con tirocini ben retribuiti post-laurea). Per accrescere l’attrattività di scienze infermieristiche si potrebbe introdurre nell’ultimo anno un tirocinio retribuito di 6 mesi in ospedale o nel territorio, che aumenterebbe anche l’apprendimento. Crescerebbe l’appeal del corso sia per il vantaggio economico che la sicura transizione al lavoro. Invece le proposte neo-liberali che circolano sono quelle di introdurre la professione intramoenia anche per gli infermieri dando un ulteriore colpo al servizio pubblico.
E ciò spiega perché manchino gli infermieri di famiglia per cui già nel 2020 dei 9.600 che si dovevano assumere, solo un terzo si è trovato. La trasformazione di una medicina territoriale in telemedicina e di medici che visitano sempre più per telefono (a cui la Covid ha dato grande impulso perché così sono stati consigliati di fare i medici dal Ministero) spiega il gigantesco afflusso che si è scaricato sui pronto soccorso che hanno mandato in tilt il servizio e portato alle dimissioni 1.200 medici e infermieri per stress in un anno. Sguarniti di personale si appaltano così ai privati i pronto soccorso (Cona di Ferrara, Mirandola,…), come si è fatto in Lombardia e Veneto, ovviamente a prezzi maggiori (la reperibilità costa 700 euro al giorno contro i 60 del pubblico). Come abbiamo detto la mancata programmazione ha portato a questa carenza (solo in Emilia-R. manca un terzo dei medici nei pronto soccorso). E così mentre non avanza la proposta della pensione negli ultimi anni con part-time senior (retribuiti per intero con la pensione maturata che tanti vantaggi darebbe) si appalta ai privati, si assumono medici senza specializzazione o in pensione (sconfessando aulici discorsi sulla qualità e sulle procedure altrove ossequiate).
E in attesa del 2026 non cambiano le procedure assegnate dal Ministero ai medici di famiglia sconsigliati a visitare coloro che contraggono il virus (per non parlare dell’impossibilità di stare accanto ad un parente in via di trapasso), incentivando una prassi sempre più digitale e da telemedicina anche per il resto delle malattie, che vede trasformarsi il medico di famiglia in un impiegato che prescrive e telefona. Una tendenza anche del Servizio Inglese (NHS) che da 2 anni vede i medici di base parlare coi propri pazienti solo tramite il telefono, che mandano alla surgery le prescrizioni mediche che il malato (anche se con la febbre) deve andarsi a prendere. Alcuni hanno assunto medici stranieri (africani, indiani, dell’est Europa, sudamericani, italiani) che fanno le poche visite necessarie, come se il “faccia faccia”, il “touch” fosse meno anziché più. Ciò spinge, chi può, verso i privati (anche in Italia) per cui cresce costantemente la spesa sanitaria privata o si rivolge alle farmacie che stanno assumendo un nuovo ruolo sanitario, erogano servizi che una volta erano di competenza dei medici di famiglia o dei servizi territoriali pubblici tramite diagnosi. Ciò avviene in concomitanza di una espansione delle multinazionali americane (Boots ha già oltre 70 farmacie, Penta Investment e dr. Max ne ha 32, Admenta Italia, McKesson Corp. Che ha acquistato nel 1999 quote in AFM di Bologna, oggi Lloyds con 260 punti vendita,…) e altri grandi gruppi (come quello italiano di Farmacie Italiane con 47 farmacie e 20 parafarmacie) sancita dalla legge 124 su “mercato e concorrenza” del Governo Gentiloni che hanno già acquistato in Italia il 10% del mercato dove operano 19mila farmacisti. Anche in questo caso tra riduzione dei laureati in farmacia, vendita delle vecchie farmacie, entrata nel mercato dei grandi gruppi che assumono dipendenti, si profila una profonda modifica del ruolo antico del farmacista che consigliava e del presidio sanitario che garantiva specie nei piccoli Comuni e si passa direttamente al “business as usual”, cioè ad una logica prevalentemente commerciale, con tanti auguri a quel servizio personalizzato che le farmacie garantivano sul territorio. In Francia esiste una legge che impedisce ai grandi gruppi di avere più del 49% delle farmacie.
Non si trascuri poi il combinato disposto di una riduzione di personale sanitario con lo sviluppo della telemedicina che prefigura nel futuro sempre più cure all’americana, cioè con la telemedicina come si sta organizzando Amazon (con Amazon Health Services) che dopo l’e-commerce ha comprato per 3,9 miliardi One Medical, catena di assistenza sanitaria di base che opera sotto la rete di cliniche Healthcare. Amazon punta a diventare i primo operatore privato dall’assistenza di base alle farmacie online e a servizi di teleassistenza. Con una quota di abbonamento mensile ci saranno sconti (come con Prime) e consulenze specifiche di medici, velocizzando visite e servizi e sta lavorando a vaccini contro il cancro al seno e a elisir di bellezza & simili, usando i furgono elettrici (sviluppo sostenibile che fa sempre molto green).
Cresce così la delusione e la sfiducia nel futuro dei cittadini e cala la soddisfazione nella nostra sanità pubblica (60%, ma in Germania è 85%). Ma là si spende di più e la medicina del territorio è una vera trincea e il rapporto personale viene considerato “qualità”. Benvenuti nel nuovo mondo digitale sanitario.
L’Osservatorio CPI dell’Università Cattolica ha messo in luce in uno studio la carenza di medici di base in Italia in un confronto europeo e nazionale. I medici di base sono scesi in modo costante dal 2012 al 2019 passando da 45.480 a 42.400. L’Italia ne ha 1 ogni 1408 abitanti, poco sotto la media europea (1430). I paesi più ricchi hanno in genere più medici di base (Germania 1 ogni 1350 ab.), Regno Unito 1300, Norvegia 1200, Francia 1180, Olanda 1100, Spagna 1080, Belgio 850, Portogallo 400. Ma ci sono paesi che ne hanno molto di meno come Grecia (1 ogni 2800 ab.), Ungheria (2200), Bulgaria (1700), Romania e Turchia (1600). Ciò mostra che nei paesi più ricchi si dà molta importanza alla medicina territoriale.
Inoltre, esistono notevoli differenze tra regioni: in quelle del Nord i medici di base hanno un carico di assistiti più elevato di quelle del Sud. In futuro, il numero di medici di base che andrà in pensione nei prossimi 7 anni eccede quello in entrata: pur considerando ulteriori 900 borse annuali per la formazione dei medici di medicina generale previste dal capitolo 6 del Pnrr e dovremmo così perdere tra i 9.200 e 12.400 medici di base dal 2022 al 2028. Lo squilibrio è stimato tra 15.500 e 18.700 medici e gran parte emergerebbe nei prossimi 3 anni con un deficit tra 10.400 e 16300 unità. Il fenomeno è legato a duna mancata programmazione degli immatricolati, ma anche al più generale sboom demografico che porta a far entrare al lavoro i nati 20 anni fa che sono 520mila rispetto ai nati del 1954 che erano 820mila.
Contesto europeo
Con 1.408 abitanti per medico di base nel 2019, l’Italia si attesta leggermente al di sotto della media europea (1.430), la quale però è influenzata negativamente da un alto valore di questo indice nei paesi dell’Est Europa. Il deficit di medici di base al Nord ha portato a richieste di maggior finanziamento per borse di studio per completare il percorso formativo dei medici di base e di anticipare la fine del corso di formazione per la specializzazione in medicina generale. Il dato differisce dal rapporto tra popolazione e numero di medici di base riportato nella sezione precedente perché i bambini residenti sono assistiti da pediatri e non dai medici di base e perché alcuni residenti potrebbero non aver scelto un medico di base.
Come funziona il sistema sanitario tedesco?
L’offerta di servizi sanitari è per la maggior parte privata: solo un quarto degli ospedali sono pubblici, anche se offrono quasi la metà dei posti letto. Le principali differenze sono che: per quelle pubbliche il contributo è fissato dalla legge, pari al 14,6% del salario lordo dell’assicurato (di cui metà è a carico del datore di lavoro), indipendentemente dal suo stato di salute. In caso di necessità, il medico di base (medico di medicina generale) è sempre un punto di riferimento, ma ci si può anche rivolgere subito a uno specialista senza necessità di un’impegnativa, diversamente da quanto avviene in Italia. Solo il numero di posti letto di terapia intensiva è aumentato del 31% dai 20.200 del 1991 ai 26.397 del 2019, e più della metà sono situati in ospedali pubblici. Le ragioni del calo (degli altri posti letto) sono da ricercarsi nell’impiego di nuove tecnologie, di migliori cure, di una migliore prevenzione e di un’ampia rete di strutture sanitarie. All’assicurazione sanitaria si aggiungono una assicurazione infermieristica per l’assistenza domiciliare obbligatoria, pari al 3,3% del salario lordo dell’assicurato (c’è una riduzione al 3,05% se ci sono figli o minori di 23 anni assicurati) e un importo aggiuntivo di circa l’1% stabilito dalle singole casse assicurative. A questi numeri, si deve sommare il personale che opera fuori dagli ospedali: circa 11mila medici e 112mila unità di personale non medico per le strutture preventive o riabilitative (dati 2017), 796mila unità di personale sanitario per le case di cura e 422mila unità di personale sanitario per i servizi di assistenza ambulatoriale (dati 2019).
Nota di redazione. Questo post eccede in lunghezza il numero di parole consentito dal blog. Si è ritenuto eccezionalmente di superare questo limite per sottolineare l'ampiezza dei dati presentati da Andrea Gandini e per dare immediatezza ad un problema sanitario italiano di grande dibattito politico, economico e sociale.