di Paolo Bruzzi. Epidemiologo clinico. Pubblicato in Forward di ottobre 2022.
La scarsa rappresentatività dei pazienti inseriti nelle sperimentazioni cliniche è considerata uno dei fattori centrali che determinano la differenza tra l’efficacia ottimale di un intervento, misurata nelle condizioni artificiali che si creano nella sperimentazione clinica (efficacy), e i suoi effetti sulle popolazioni alle quali è destinato (effectiveness). Questi pazienti tendono a essere molto particolari, rispetto ai potenziali destinatari dell’intervento, per età, sesso, prognosi, comorbilità, “fitness”, e anche per caratteristiche sociali (livello di reddito/istruzione, appartenenza a specifici gruppi etnici o linguistici, ecc).
In quasi tutte le discussioni sulla metodologia delle sperimentazioni cliniche, si confondono però le due principali problematiche che derivano da queste differenze in un’ottica di sanità pubblica e sul piano clinico. La distinzione è importante: una maggiore rappresentatività delle popolazioni di pazienti inseriti nei trial potrebbe risolvere il problema della valutazione dell’impatto sanitario dell’intervento, anche se solo localmente e nel breve termine, perché le caratteristiche della popolazione destinataria possono essere diverse, anche radicalmente, in aree e tempi diversi, per vari motivi.
Il secondo problema (la difficoltà nell’applicazione dei risultati di un trial in categorie di pazienti sottorappresentate nel trial) è invece più complesso, e si pone tutte le volte in cui si può ipotizzare che gli effetti di un trattamento in termini di efficacia e/o tollerabilità non siano gli stessi in tutte le categorie di pazienti, in pratica sempre. La sua soluzione dipende in gran parte dalla frequenza di queste categorie.
sintesi di Alessandro Bruni
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