di Massimo Recalcati. Filosofo e analista lacaniano della società. Pubblicato nel blog dell'autore e in La Repubblica del 28 novembre 2022.
Le parole hanno un peso. E quelle pronunciate recentemente dal neoministro all’Istruzione Valditara esaltano inequivocabilmente l’umiliazione come pratica pedagogica, come, cito aprendo virgolette, “principio che andrebbe rivalutato come fattore fondamentale per la crescita e la costruzione della personalità”.
Le successive rettifiche – non voleva attribuire valore all’”umiliazione” ma all’”umiltà”; “in gioco è l’umiltà contro l’arroganza” – peggiorano, se possibile la sua enunciazione conferendogli il valore di un vero e proprio lapsus. Devo ricordare che, in psicoanalisi, il lapsus non è mai un semplice errore linguistico, ma ciò che riflette la convinzione più profonda del soggetto che lo pronuncia. Si tratta di prenderne atto: le parole di questo ministro sembrano provenire dal medioevo.
Anche laddove, in una replica ospitata ieri da questo giornale (ndr La Repubblica), evoca, in modo francamente improprio, l’importanza cristiana dell’umiltà come condizione della salvezza. Ma cosa c’entra con la vocazione laica della Scuola? Cosa c’entra con il suo valore democratico?
Resta che il recupero dell’umiliazione come principio pedagogico è inaccettabile. Non perché non sia fondamentale in ogni processo educativo l’esperienza del limite e del riconoscimento delle proprie responsabilità, ma perché non c’è alcun valore educativo né nell’umiliazione, né nell’imposizione dell’umiltà. Anzi, se c’è un compito etico della Scuola è proprio quella di liberare le vite dei nostri figli dall’esperienza ingiusta dell’umiliazione e di quella dell’umiltà imposta.
sintesi di Alessandro Bruni
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