di Chiara Puricelli. Pubblicato in AGING Project Magazine. Università del Piemonte orientale del 29 dicembre 2022.
Nel suo trattato “Comporre una vita”, la scrittrice Mary Catherine Bateson indica la vecchiaia non come ciò che resta di un percorso ormai concluso, ma come una nuova fase in cui il passato dà significato al presente e deve essere reinterpretato per investire nel proprio futuro. Questa interpretazione esprime bene quanto delicato possa essere il passaggio alla terza età e come le esperienze e i ruoli della fase precedente possano influenzare il modo in cui una persona anziana vivrà la propria vecchiaia. L’avvento della medicina di genere ha permesso di portare alla luce numerose differenze biologiche nel modo di invecchiare, differenze che spesso sono passate in sordina, anche perché la maggior parte degli studi clinici sono stati effettuati su soggetti maschi, perdendo l’opportunità di rilevare le sottili ma importanti specificità fisiologiche dell’ uomo e della donna.
Il paradosso è che le donne, pur essendo in media più longeve, sembrano invecchiare peggio. A livello globale, la differenza tra uomini e donne in termini di aspettativa di vita è di circa 4 anni ed è più marcata nei paesi più sviluppati, ma gli indicatori di benessere personale risultano peggiori per le donne. La domanda allora sorge spontanea: se le donne sono più fragili, come fanno a vivere di più? È proprio questo il punto: non si tratta solo di quanto si vive ma anche di come si vive, tanto è vero che è stato proposto di usare come indicatore epidemiologico non tanto l’aspettativa di vita quanto l’”aspettativa di vita con disabilità” per tenere conto anche degli aspetti relativi alla qualità della vita oltre che alla sua durata.
sintesi di Alessandro Bruni
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