di Daniele Lugli. La nonviolenza ieri e oggi.
Un amico mi scrive segnalandomi la ripubblicazione de “La coscienza storica” di Mario Miegge. Mi invita a farne una recensione o una presentazione, con ricordo di Mario. Rispondo che ricomprerò il libro, letto a suo tempo, introvabile in casa – individuo con certezza solo la Treccani – e scomparso dalla memoria. Posso pensare al più a ricordi del mio rapporto con Mario, al quale sono grato per molti aspetti e motivi.
Ritrovo la Lettera dedicatoria a Piergiorgio Bellocchio, direttore di Quaderni Piacentini, “Sulla generalizzazione della Ragione nell’anno di grazia 1978”, datata 30 dicembre e pubblicata poi sulla rivista: “Non ho ritegno a dichiarare le generalità della mia vicenda politica, lunga più di venti anni e svoltasi sotto il simbolo di falce e martello associato con altre variabili figure come sole e libro aperto e poi universo mondo, con maggiore e minore numero di paralleli e meridiani; e ultimamente ridottasi alla sola appartenenza alla più cospicua confederazione sindacale italiana, sulla cui tessera, per antiche ragioni a me ignote, il suddetto simbolo non compare”.
Ho la stessa esperienza, di durata appena minore e di importanza non paragonabile. Mario ha scritto anche su Quaderni Rossi di Raniero Panzieri. Non ho fatto in tempo a conoscerlo. È morto nel ’64 a 43 anni. Quanto a tessere mi è rimasta solo quella della Cgil, come Mario. Condivido il suo giudizio che “pochi anni siano stati più infausti di questo ’78” a parte quelli della dittatura fascista. Non provo a ripercorrere quell’articolo. So che condivido allora l’analisi e mi pare di condividerla oggi, anche se non tutti i riferimenti mi sono chiari come un tempo. Va considerato che sono di quarantaquattro anni meno perspicace di allora. Il tema è quello del passaggio dalle “armi della critica” alla “critica delle armi”, che appassiona una sinistra che non rinuncia all’idea di rivoluzione.
Conosco Mario a fine estate del ’69, direi. È a Ferrara, giovane Preside della Facoltà di Magistero, appena attivata per iniziativa di un Consorzio tra Enti locali per il potenziamento dell’Università. Di quel Consorzio sono segretario, ma non ho alcuna parte nella realizzazione della Facoltà, perseguita con decisione dal Presidente del Consorzio, Amleto Bassi, in collaborazione con Giorgio Spini. Sono un segretario-burocrate: verbali, delibere, bozze di convenzione... Miegge lo incontro al Partito, il Psiup. Ci siamo approdati con storie non molto diverse. Ci ripromettiamo di frequentarci.
Spini e Miegge realizzano un Magistero che subito si pone come un centro di cultura vivacissimo nella città. La convenzione istitutiva assegna alla facoltà cinque cattedre, sette assistenti di ruolo e sette incarichi interni, cioè solo in parte retribuiti. Si attivano tuttavia due corsi di laurea (Materie letterarie e Pedagogia) con cinque istituti. Ottime nozze coi fichi secchi, si potrebbe dire. L’ambiente di Magistero è bellissimo. Così mi sembra, giacché inizio a frequentarlo accogliendo l’invito a collaborare rivoltomi da Alberto L’Abate, fiorentino, ben conosciuto nel piccolo Movimento nonviolento. Insegna Sociologia dell’Educazione, la sola materia di carattere sociologico. Mi improvviso con entusiasmo “cultore della materia” e studio lo studiabile per poterlo insegnare. È il solo incentivo allo studio che conosco e pratico da sempre. Un anno lo sostituisco nell’insegnamento. Si assenta per scrivere e migliorare la propria posizione, con un riconoscimento e una retribuzione pieni. Si promuovono corsi interdisciplinari, con insegnanti straordinari, su abbandono scolastico, devianza, malattia mentale, periferie. Mario, instancabile, promuove e sostiene. Quel che faccio a Magistero, collaborando a ricerca e insegnamento, completa il mio impegno politico e amministrativo, assessore alla pubblica istruzione al Comune di Ferrara.
Un articolo di Miegge, sul primo numero di Inchiesta, gennaio ’71, “Sviluppo capitalistico e scuola lunga” ispira la mia prima relazione a nome della Giunta per il Consiglio comunale. Non verrà mai presentata. I colleghi assessori, pur manifestando molto apprezzamento, propongono continui aggiustamenti che non accolgo. Interverrò con la massima libertà, affrontando qualche contrasto, nel campo che mi è assegnato. Non riesco a fare cose alle quali tengo, ma nel complesso non sono insoddisfatto. Anche di questi aspetti parlo con Mario, che mi è sempre di molto conforto. A proposito di scuola spesso è con noi una grande e cara pedagogista, Egle Becchi. Le chiedo di condurre una ricognizione sulle scuole dell’infanzia, alle quali si aggiungono gli asili nido. Ne risulta un ottimo lavoro.
Su segnalazione di Mario, nell’estate del ’71, vado ad Agape, centro ecumenico valdese a 1.600 metri di altezza. Negli anni Settanta la sinistra c’è ancora. È divisa tra riformisti e rivoluzionari: i primi non fanno le riforme, i secondi non fanno la rivoluzione. Quando ci provano sono, di solito, guai. Ad Agape sono tutti rivoluzionari, dell’arcipelago extraparlamentare. Io, assessore psiuppino, sono un moderato, anche se di un partito che si considera di sinistra, più di PSI e Pci (non ci vuole molto). Prima del nostro campo c’è stato quello dei cadetti (adolescenti valdesi). Residuano delle scritte: Müntzer, Marx, Mao Tse Tung e anche, Müntzer a Lutero gli fa un c**o così. Lo scritto “Sviluppo capitalistico e scuola lunga” è il testo attorno al quale si sviluppa il dibattito. Tutti sembrano convinti della crisi strutturale del capitalismo. Dissentono su quale e dove sia il punto di rottura, se sia presente o almeno in arrivo. Mario non si fa vedere, ma lo vado a trovare a Massello. Il comune, con tutte le sue frazioni e borghi, ha 150 abitanti, ora ne ha un terzo. Parliamo e facciamo una breve camminata assieme. Ho modo di apprezzare il suo passo di montanaro.
C’è poi lo straordinario impegno per le 150 ore all’Università. Qui Mario è trascinante. Si stringono i rapporti con i Consigli di fabbrica, della Montedison in particolare. Io lo vedo come il coronamento delle varie iniziative presenti nei quartieri per il recupero dell’obbligo scolastico, per il diploma di terza media. Le 150 ore sono ben più che questo. Su invito del Consiglio di fabbrica della Montedison vado una sera a parlare nello stabilimento. In portineria non vogliono farmi entrare. Dico che sono invitato dal Consiglio e non posso mancare. Mi denuncino se credono. Li diffido da impedirmelo. Sono un po’ teatrale. L’intervento di un membro del Consiglio risolve la cosa e permette l’incontro. Le 150 ore sono un fatto importante. Producono mutamenti nelle forme e nei contenuti dell’insegnamento. Indicano una strada, che non ha poi sviluppi, di possibili nuovi rapporti tra istituzioni, cultura, politica e lavoro. È una stagione breve, ma intensa. Nell’ultimo scritto di Miegge su Inchiesta del 2011 “Memorie del lavoro politico” la vicenda delle 150 ore ha un ruolo centrale.
Nel ’75 finisce la mia esperienza di assessore e torno al mio lavoro in Provincia. Lo Psiup è finito da tre anni e ho seguito Foa e Miniati nel Pdup. Di Miniati sono amico da tempo. Foa lo conosco da lontano. È Mario a rendermelo vicino. Mario, inoltre, è molto soddisfatto del mio impegno a Magistero. Mi propone un percorso che, in un paio d’anni, dovrebbe portarmi a un incarico retribuito in Facoltà. Sono lusingato e tentato. Essere pagato per fare ricerca, studiare e insegnare mi pare il massimo. Non accetto però. Pigrizia, responsabilità verso la famiglia, sentirmi inadeguato? Mario è deluso, ma conclude “È importante anche che ci siano buoni funzionari”. Continuiamo a vederci a Magistero fino agli anni ’80. Poi cesso quella collaborazione. Ci vediamo abbastanza spesso, ma non certo con l’intensità precedente. Lui si impegna poi come indipendente, eletto dal Pci, in Consiglio comunale. Io ho l’ultima tessera di partito – con falce martello, mondo e pure un pugno chiuso – di Democrazia Proletaria. Alle elezioni del ’79 per la coalizione Nuova Sinistra Unita propongo lo slogan, dai compagni giudicato eccessivo, “Se non ci votate spariamo”. Ribatto “Spariamo da sparire. È quasi certo. Non è una minaccia”. In effetti non ne esce neppure un deputato. Con Mario ci vediamo nelle aule di Magistero che ospita la Scuola di Cultura contemporanea, nella quale mi impegno. Così pure riprendo con più lena il rapporto con il Movimento nonviolento, un filo allentato, ma mai interrotto.
Inizio una ricerca su Silvano Balboni. Con fasi alterne ci tornerò sopra per trent’anni, fino alla pubblicazione del libro. Alla Scuola di Cultura contemporanea propongo un breve ciclo sulla nonviolenza con i collaboratori principali di Capitini: Piero Pinna e Luisa Schippa. Miegge è presente. Illustro quanto ho raccolto su Balboni. Ci saranno altre tre presentazioni pubbliche, come se l’opera fosse lì, lì, per uscire. Mario c’è sempre. Apprezza e mi invita a completare la ricerca. Gli chiedo anche di Paul Ricoeur, il cui nome ho incontrato nel percorrere la breve, intensa vicenda di Silvano. Gli chiedo pure di suo padre, Giovanni Miegge, citato in una lettera inviata a Balboni a proposito di Ferdinando Tartaglia. Una volta torniamo assieme in treno da Perugia. Io ci sono andato per raccogliere qualche testimonianza di persone, che hanno conosciuto Balboni, convenute per un’iniziativa su Capitini. Anche Mario è presente invitato dalla Schippa. Parla molto del rapporto dei giovani con la musica. Mi chiede se avessi riscontato profezia nelle parole di Capitini. “Per quel che ne posso capire, direi di sì” rispondo.
Ho un brevissimo rientro in politica: candidato come indipendente per i Verdi nelle elezioni del ‘92. Mario apprezza questo ultimo tentativo di inseguire un amore inappagato. Mi chiama pure a partecipare a una sorta di gioco di ruolo a tema ecologico con i suoi studenti. La moglie, anche lei docente nella Facoltà, mi chiede di condurre una sorta di laboratorio sui conflitti. Ancora Mario mi invita a tenere una lezione su David Thoreau. Mi preparo con il massimo scrupolo. Parlo con passione ed emozione. Mario mi dice delle mie doti didattiche. Mi chiama pure come correlatore a una tesi su Gandhi. È per me un’occasione di stimolo a riprendere quell’azione e quel pensiero. Il lavoro dello studente ne sviluppa un versante psicologico. Io, nei colloqui con Mario, vedo meglio l’apporto di differenti culture nel pensiero gandhiano e mi pare coglierne finalmente la complessità. Anche di questo gli sono debitore.
Nel giardino di fronte alla sua casa mi parla dell’ultimo libro da poco uscito: “Il sogno del re di Babilonia. Profezia e storia da Thomas Müntzer a Isaac Newton”. Me ne dona una copia, con una dedica che mi è cara: “A Daniele il quale, da Capitini e poi per conto suo, ha imparato che la ‘res publica’ ha bisogno di un poco di profezia. Mario”. C’è tutto il tema del rapporto profezia storia, che il dibattito del Cinquecento e del Seicento non ha esaurito. Sarà per la dedica, per il ruolo che vi ha il mio omonimo profeta, per la suggestione della pietra che abbatte gli imperi del mondo susseguitisi nel tempo (l’incombente catastrofe ecologica!?) è un libro che ritrovo facilmente, anche se non l’ho più riletto. Rileggerò invece “Che cos’è la coscienza storica?”. C’è, mi sembra di ricordare, un bel po’ di Vittorio Foa e tanto altro, compresa una valutazione positiva di Savonarola. Nel 1948 Balboni vuole che il Comune gli dedichi un “premio di duecentomila lire, per un libro ispirato da una religiosità anticonformistica e antiistituzionalistica”. Il bando, emanato, viene ritirato. Unico risultato una conferenza al Teatro comunale del giovane Giorgio Spini, che porta anni dopo a Ferrara, con Magistero, Mario Miegge.
So poi che Mario non sta bene. Lo incontro a camminare sulle mura. Il suo passo è incerto. Niente a che vedere con il passo che gli ho visto sulle sue montagne. Mi dice che si sta riprendendo con infiltrazioni di acido ialuronico. “Ti sarai strapazzato” – gli dico – “Tornerai in forma presto”. Non sarà così. So vagamente della sua malattia. Vilmente non lo vado a trovare. Ricordo la sua sollecitudine nei miei confronti quando sembra che un mio guaio possa evolvere malignamente. La notizia della sua morte mi sorprende. Al funerale vorrei dire una parola, ma non ne ho la forza.
Riprendo ora l’articolo “Sulla generalizzazione della Ragione nell’anno di grazia 1978” e vado alle conclusioni. Torna il tema della “congruenza dell’uso delle armi con una strategia della ragione”. L’uso delle armi odierne è evidentemente incompatibile con la sopravvivenza della specie. In generale “l’uso delle armi appare incompatibile con l’azione democratica di massa e ancor più con effettivi processi di emancipazione dei soggetti: riguardo ai quali si può ormai difficilmente sostenere che la violenza sia la levatrice della storia”. È un tema che allora è molto discusso. Vale la pena ripensarlo mentre soffiano, vicini, venti di guerra. Mario lo fa ricollegando eventi lontani nel tempo all’attualità. “Può apparire del tutto irrilevante che, in un mattino estivo del 1658, Giorgio Fo, il Quacchero, incontri il Lord Protettore Olive Cromwell cavalcante per Hyde Park, e dica tra sé (forse non senza simpatia) ’Quest’uomo ha la morte addosso!’. Ma io penso che la storia di Giorgio Fox sia altrettanto interessante e non meno attuale di quella di Oliviero Cromwell. E questo per il fatto (già posto bene in evidenza da Christopher Hill) che Giorgio Fox, e molti altri della sua Società degli Amici, erano stati nella schiera dei profeti armati, e vittoriosi. Ed essendo pervenuti alla convinzione che in quella Vittoria si era perduta la Rivoluzione, si misero in cerca di altre vie verso la terra promessa; vie al loro tempo del tutto ignote, e nel presente ancora scarsamente esplorate”. Mario Miegge, il militante, ci invita a non abbandonare la ricerca.