di Luca Sofri. Pubblicato in Wittgenstein, il blog dell'autore, del 15 novembre 2022.
Una montagna di anni fa, alla fine di un esame universitario mal riuscito da cui uscii con un voto basso, il professore mi disse una cosa che mi divertì malgrado l’umiliazione, e che suonava come “guardi, si vede che lei ha studiato, ma evidentemente se non ci arriva non c’è molto da fare”. Il divertimento per quel giudizio negativo, e anche un po’ di compiacimento, derivava dal fatto che venivo da una carriera scolastica che fino ad allora era stata accompagnata sistematicamente – e meritatamente – dallo scorato commento che “il ragazzo non si applica” o “potrebbe fare, ma non fa”, commento che non si era tramutato in bocciature solo grazie alla fortunata condizione di essermi trovato in una scuola a misura di quelli pigri e viziati come me, che avessero la sufficiente brillantezza per cavarsela anche senza grande impegno.
Ma è un’alternativa familiare a molti, quella di essere categorizzati tra gli studiosi, e meritevoli per questo, o tra quelli di qualche talento o intuizione che se ne accontentano; oppure tra le combinazioni ulteriori, encomiabili o sfortunate. Sono criteri che mi sono tornati in mente nel leggere in queste settimane i rari ragionevoli tentativi di riportare la recente confusa discussione sul “merito” dentro qualche sensatezza di uso delle parole (sul Post Vanessa Roghi, sul Foglio Giacomo Papi e oggi Enrico Bucci): da parte di chi ha capito che come al solito ci si è messi a discutere di una parola invece del suo significato.
sintesi di Alessandro Bruni
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