di Adam Cifu. Medico internista. University of Chicago Medicine. Pubblicato in Il Punto del 10 gennaio 2023.
L’assistenza a pazienti morenti fa parte della pratica medica da millenni; impariamo a prenderci cura del fine della vita nel corso degli studi e della nostra carriera; siamo testimoni dell’assistenza erogata da mentori, colleghi e allievi. Allora, perché spesso non riusciamo a farlo bene?
La persona che più mi ha insegnato come costruire una “buona morte” è stato mio padre. Nel 2006 ricevette la diagnosi di microcitoma polmonare. Per decine di anni aveva fumato molto e si aspettava questa diagnosi. Dopo un referto preoccupante di una tac nel 2005, aveva ritardato il follow up sospettando che una diagnosi precoce non avrebbe portato a risultati migliori, bensì a un periodo più lungo di convivenza con il cancro. Questo sospetto derivava dal fatto che si fosse formato come medico negli anni cinquanta; il suo giudizio prognostico non aveva tenuto il passo della medicina.
Mio padre ricevette cure palliative per sei mesi, mesi durante i quali riempì le sue giornate di conversazioni con amici, familiari e colleghi. Lui chiamava queste conversazioni “signing out”. Io e lui abbiamo parlato quasi ogni giorno in quei mesi, certamente più di quanto parlavamo quando quando ero adolescente e vivevamo insieme. Solo più tardi ho capito che nel corso di molte di queste conversazioni mi stava preparando alla sua morte. Quando il declino della sua qualità di vita si accentuò, passammo un fine settimana a discutere di ciò che sarebbe accaduto. Ripensai proprio a quel fine settimana quando, nel 2014, lessi sul BMJ un articolo dal titolo “Morire di cancro è la morte migliore”.
sintesi di Alessandro Bruni
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