di Luigi Viviani. Sguardi al futuro politico.
Da tempo il nostro Paese si caratterizza, in ambito europeo e internazionale, per un basso livello medio dei salari, che mal si concilia con le esigenze di vita degli italiani e con le stesse necessità di crescita del sistema produttivo e sociale. I dati parlano chiaro e ci dicono, secondo l’Ocse, che negli ultimi 30 anni i salari italiani sono rimasti fermi mentre quelli tedeschi e francesi sono cresciuti oltre il 30%.
Oggi l’Italia è l’unico Paese Ocse in cui, negli ultimi due anni, i salari sono diminuiti del 2,9%. L’Istat aggiunge che per il 25% degli italiani il reddito annuo non arriva a 10 mila euro lordi, mentre solo il 3,7% supera il 70 mila euro. Su questi dati ha ovviamente influito la pandemia, la guerra in Ucraina, l’aumento dei prezzi dell’energia, sfociati in una crescita dell’inflazione che ha toccato le due cifre.
A tutto ciò va aggiunto il peso della previdenza e del fisco, avendo presente che su 100 euro di retribuzione solo 55 arrivano nette in busta paga. Mentre le previsioni di crescita per il 2023 non escludono la possibilità di recessione. Tutto ciò ha contribuito ad aumentare e consolidare le disuguaglianze che ormai sembrano diventate un tratto strutturale del nostro sviluppo.
Il Rapporto Oxfam, presentato al recente World Economic Forum di Davos, presenta sull’Italia alcuni dati impressionanti. Negli anni 2020-21 l’1% dei più ricchi ha incamerato il 63% della ricchezza prodotta nel biennio, mentre il 90% più povero ha acquisito soltanto il 10% di tale ricchezza. Un livello di disuguaglianza che colloca 5,6 milioni di italiani in povertà assoluta.
A complicare ulteriormente la situazione contribuisce la scarsa qualità media dei lavori offerti sul mercato, per cui negli ultimi mesi, sia per trovare un lavoro migliore, sia per un rapporto diverso con la famiglia, stiamo assistendo al fenomeno nuovo della decisione di licenziarsi da parte di oltre un milione e mezzo di occupati, in gran parte giovani e donne.
Finora si è cercato di far fronte alla situazione proponendo di intervenire con l’introduzione del salario minimo e abbassando il peso fiscale sulle retribuzioni, in particolare tagliando il cuneo fiscale. In tal modo si interviene dall’esterno del processo produttivo con una garanzia di minimo e riducendo gli oneri indiretti che gravano sul costo del lavoro.
Protagonisti della produzione e del lavoro rimangono gli imprenditori e i lavoratori e la regolazione dei loro rapporti, compreso il livello del salario, avviene tramite le loro rappresentanze (Confindustria e sindacati Cgil-Cisl-Uil nel settore industriale) mediante la contrattazione collettiva. Tuttavia tale strumento, per il modo con cui viene adoperato negli ultimi tempi, non è riuscito finora a modificare tale situazione salariale negativa.
In gran parte vengono rinnovati, spesso in ritardo, i Contratti nazionali di categoria, che difficilmente riescono a rapportarsi ai diversi livelli di efficienza e produttività delle singole imprese, Il parametro della produttività, che misura il rapporto tra il valore aggiunto dell’impresa e le ore lavorate dai lavoratori, diventa oggetto della contrattazione aziendale. Anche in questo campo il nostro Paese è in grave ritardo. Dal 1995 al 2019 la produttività del lavoro è cresciuta del 9% in Italia a fronte di valori attorno al 30% negli altri principali Paesi europei. Per l’Italia la suddetta crescita è avvenuta negli anni ’90 mentre dal 2000 in poi si è verificata una crescita zero.
Mi rendo conto che per molti della sinistra tradizionale parlare di produttività può sembrare entrare in ambiti propri dell’impresa, che in epoca passata ha coinciso anche con forme di sfruttamento del lavoro, prospettiva che peraltro, come tanti aspetti della realtà attuale dimostrano, può trovare nuove forme di presenza anche oggi. Ma se valutiamo la situazione dal punto di vista della trasformazione produttiva e del lavoro nel capitalismo immateriale di oggi, ci accorgiamo che più produttività significa soprattutto più innovazione e più competenza del fattore umano in tutti gli ambiti della vita dell’impresa, obiettivi che significano più sviluppo e più lavoro di qualità con conseguente più salario. E che coincidono con le stesse finalità del sindacato.
La realtà del lavoro del nostro Paese dimostra quindi che i bassi salari dipendono direttamente dal ritardo della crescita della produttività nelle singole aziende e nell’intero sistema produttivo. Lo strumento per contribuire efficacemente a migliorarla rimane la contrattazione collettiva, particolarmente a livello aziendale e quindi il ruolo del sindacato che, rispetto alla politica, ha il vantaggio di essere un protagonista diretto del processo produttivo.
Il contratto inoltre è uno strumento flessibile che si può utilizzare in tutte le occasioni ritenute utili. In questa particolare fase della vita economica e sociale del Paese il sindacato, attivando una strategia di forte iniziativa contrattuale, può dare un contributo determinante ad avvicinare i livelli salariali dei lavoratori italiani a quelli europei e rendere più concreta la dignità del lavoro.