di Matteo Castellucci. Pubblicato in Newsletter Linkiesta Europea del 22 febbraio 2023.
Una volta per tutte: si dice Ucraìna.
- Il 24 febbraio 2022 è uno di quei giorni della Storia, e della propria vita, di cui si ricorda esattamente il momento in cui la notizia ci ha raggiunto. Come l’11 settembre 2001. Una notifica sullo schermo letta con gli occhi ancora impiastricciati dal sonno, per perderlo – tutto – sùbito dopo. Gli ucraini non lo hanno ancora recuperato.
- Siamo rimasti frastornati nelle ore di veglia, in giornate di un inverno che, come questo di un anno dopo, somigliava più alla primavera, nelle nostre città dove il trauma dell’impotenza era circoscritto ai blindati russi nelle immagini sul televisore, alle ultim’ore esplose dei telegiornali.
- Abbiamo imparato parole nuove, ma senza davvero capirne il significato. In alcuni casi la «nebbia di guerra» non si è più diradata, nell’ossessione mediatica di concedere diritto di replica all’aggressore, ma intransigenza per l’aggredito. Abbiamo appreso i nomi delle città ucraine, pronunciandoli con l’accento sbagliato. Ancora oggi mezzibusti, ministri, leader d’opinione e di forze politiche confondono la sillaba su cui mettere l’enfasi.
Una volta per tutte: si dice Ucraìna.
- Non possiamo capire gli ucraini. Possiamo e dobbiamo armarli, ma non possiamo capirli. Lo ha spiegato così bene il presidente Volodymyr Zelensky nelle interviste ai giornali italiani e nella replica a distanza a Silvio Berlusconi: non si può restare neutrali quando uccidono la tua famiglia, quando radono al suolo casa tua.
- Hanno tutti una storia. Tutti avevano altri sogni. Le loro foto, di solito in uniforme, vanno aggiunte al muro che commemora le vittime sotto le guglie dorate di San Michele, dove Joe Biden lunedì ha deposto una corona di fiori.
- Negli scatti delle agenzie le bare sono ammantate dal giallo e dal blu delle bandiere. È questo il costo che sta pagando un popolo intero, mentre il nostro «Paese reale» dà del televenditore a Zelensky solo perché fa esattamente quello che dovrebbe fare un leader di guerra: non arrendersi mai.
Una volta per tutte: si dice Ucraìna.
- Ve la ricordate l’aggettivazione di un anno fa? L’«ultima disperata resistenza» di Kyjiv, l’eroismo di Zelensky raccontato come il martirio di un istrione. L’Ucraina aveva le ore contate. Invece la capitale ha retto, e con lei la democrazia in Europa. Smentita epocale a tutto l’inchiostro sprecato a incensare la «supremazia» dei criminali di guerra inquadrati nelle truppe d’invasione.
- La verità è che non si può. Non possiamo capire gli ucraini, perché a differenza dei nostri nonni non sappiamo come ci si sente a veder morire amici e compagni di scuola. A essere stanchi di contarli. Stravolti dentro un incubo lungo un anno d’insonnia. Perché al massimo scappiamo dalle responsabilità e non dalle bombe.
- Ma possiamo scegliere di non restare neutrali. Di non assuefarci alle cartine con la linea del fronte, di non normalizzare le macerie e le vittime civili. Di non stufarci perché «si sente parlare solo di Ucraina» come in un passato non troppo lontano dicevamo del coronavirus. Di non perderci in polemiche che sbiadiscono di fronte alla battaglia più importante di tutte.
sintesi e redazione di Alessandro Bruni
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