di Emilie Sartorelli. Pubblicato in Scienza in rete del 30 gennaio 2023.
Il 12 gennaio la Società Psicoanalitica Italiana (SPI) pubblica, a firma del presidente Sarantis Thanopulos, un comunicato indirizzato al governo. Il testo esprime «grande preoccupazione» per il ricorso a farmaci che bloccano lo sviluppo puberale su minori con diagnosi di disforia di genere. A sostegno di questa preoccupazione segue un elenco di controindicazioni a monito che la «sperimentazione in atto elude un’attenta valutazione scientifica». Infine, l’invito ad avviare una «rigorosa discussione».
Quattro anni fa, il via libera dell’AIFA (e, a monte, del Comitato Nazionale di Bioetica) sulla triptorelina è stato un passetto avanti verso l’accessibilità alla salute transgender. Tuttavia, l’utilizzo di questo tipo di farmaci non è affatto una novità.
Sin dagli anni ’80 si è iniziato a ricorrere abitualmente ai bloccanti degli ormoni sessuali, soprattutto per curare alcuni tumori (esempio, alla prostata o al seno) e altre condizioni ormone-sensibili (endometriosi o fibromi uterini); ma anche per trattare bambine e bambini che presentano pubertà precoce centrale (CPP): semplificando, quando lo sviluppo sessuale tipico dell’adolescenza avviene in età estremamente prematura, o troppo rapidamente, rischiando di causare problemi di varia natura. Nei casi di CPP, si blocca così temporaneamente, o si rallenta, lo sviluppo dei caratteri sessuali primari e secondari (gonadi, genitali, seno, peluria, ecc.). In genere, il trattamento prosegue fino agli 11-12 anni, per poi lasciare che il corpo riprenda il processo di maturazione sessuale. Nonostante qualche dubbio sollevato in merito ad alcuni possibili effetti collaterali – rischi che però, a oggi, non sono stati confermati scientificamente – la maggior parte degli studi e delle prove sperimentali ha dimostrato la sicurezza e l’efficacia dei bloccanti della pubertà.
sintesi di Alessandro Bruni
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