di Stefano Allievi. Sociologo del mutamento culturale. Pubblicato nel blog dell'autore il 20 aprile 2023.
Non sappiamo cosa fare? Facciamo qualcosa che non serve a niente. Tanto per fare. Sembra questa la logica che presiede alle ultime decisioni del governo sul tema delle migrazioni. Una più sbagliata dell’altra. Una più contraddittoria rispetto all’altra. Tutte contraddittorie con degli obiettivi di ragionevole gestione del fenomeno. Ma se errare è umano, e può capitare, quando si è presi alla sprovvista (il problema semmai è lì: essere presi alla sprovvista da un fenomeno che è uguale a se stesso da anni), perseverare è diabolico, e denota ostinazione, più che intelligenza delle cose.
Mettiamola così. Da un lato abbiamo una crisi demografica devastante, che è cominciata negli anni Novanta. È da allora che abbiamo più morti che nati, anche se ce ne siamo accorti solo ora, che il saldo negativo è arrivato a meno 400mila: una città come Bologna che sparisce ogni anno. Ma i suoi effetti sul mercato del lavoro si misurano ora, dato che chi va in pensione adesso è sostituito da una coorte che è grande poco più della metà: con il risultato di una drammatica domanda di lavoro che non riesce a intercettare alcuna offerta semplicemente perché non c’è, non è mai nata – un dato aritmetico che dovrebbe capire anche un bambino. Dall’altro abbiamo gli arrivi: irregolari perché non esistono (più) canali regolari di ingresso per motivi di lavoro.
Qualcuno ha pensato di fare due più due? Purtroppo no. Nessuna organizzazione, nessuna programmazione. Si dichiara un inesistente stato di emergenza (che non c’è: nonostante tutto, il numero di nuovi arrivati è gestibile, e inferiore, come visto, ai bisogni del mercato del lavoro, aggravati dal fatto che sta di nuovo aumentando il numero degli emigranti – è l’evasione, il dato più drammatico, non la presunta invasione) e ci si inventa un commissario straordinario con poteri speciali per gestire gli arrivi, allo scopo di continuare a non far nulla di serio nel gestire le partenze, e affinché l’immigrazione e il mercato del lavoro possano incontrarsi.
Con quali effetti? In concreto significherà più CAS (centri di accoglienza straordinari) gestiti dai prefetti, che sono le strutture che hanno funzionato peggio, talvolta al limite e oltre il limite dell’illegalità, perché senza alcun obiettivo di integrazione. Non a caso cinque regioni hanno rifiutato di aderire al progetto che istituisce il commissario (alcune delle quali, come Emilia e Toscana, sono tra quelle che l’immigrazione la gestiscono meglio). E sei sindaci (Milano, Torino, Bologna, Firenze, Roma e Napoli) hanno scritto al governo per protestare. Vero, tutte realtà governate dal centrosinistra. Ma anche, semplicemente, quelle con più immigrati, spesso meglio integrati, e che sanno che il tessuto produttivo ne richiede ancora di più. E che, essendo in prima fila nel controllo del territorio, hanno paura, a seguito delle decisioni governative, di avere più irregolari anziché meno, e quindi più insicurezza anziché meno.
Una pensata ulteriore è infatti l’abolizione della protezione speciale: che consentiva di dare un permesso di soggiorno per motivi di lavoro anche a persone che non erano pienamente richiedenti asilo, ma avevano altri motivi umanitari (peraltro l’Italia, anche con essa, approva meno della metà delle richieste di asilo: la Germania e altri ben più della metà). Togliere la protezione speciale non è in connessione logica con gli obiettivi dichiarati. Farà diminuire gli sbarchi? No. Farà aumentare i rimpatri? No. Consentirà una migliore integrazione? No. Aiuterà la stessa gestione della cosiddetta emergenza? No. Precisamente il contrario. Addirittura, dovranno lasciare gli SPRAR (oggi SAI) coloro che sono già inseriti in un percorso virtuoso di integrazione. Esattamente come accaduto ai tempi in cui Salvini era ministro dell’interno, e aveva introdotto questa norma per la prima volta. Con il brillante risultato di avere più irregolari sul territorio, più disordine, più persone per strada, quindi più percezione di insicurezza, e meno occupabili. Sì, perché a paradosso si aggiunge paradosso, a dimostrazione che non c’è alcun governo delle migrazioni.
Tutto ciò accade perché la politica rifiuta di ammettere quello che la demografia e il mercato del lavoro ci mostrano tutti i giorni: che abbiamo bisogno di immigrati (i tanto disprezzati migranti economici), che ne avremo bisogno sempre di più, e che se non arriveranno ci impoveriremo enormemente, come dimostrato dai calcoli della Banca d’Italia citati persino dal DEF (Documento di economia e finanza) del governo. Perché la recessione economica accompagna e segue la recessione demografica in cui siamo in mezzo. Solo un dato: passeremo dagli attuali 3 lavoratori attivi ogni 2 pensionati, all’1 a 1 nel 2040. Come pensiamo di sopravvivere, quanto poveri e indebitati vogliamo lasciare i nostri figli, che peraltro sull’immigrazione non la pensano come noi, solo per nutrire le nostre paure e le rendite politiche di alcuni?
Non solo: le diarie per gli immigrati, invece di salire, calano da anni. Risultato? Niente formazione e orientamento al lavoro, niente insegnamento della lingua italiana, niente politiche dell’alloggio, e niente (o molti meno) diritti. Dell’istruzione in passato si diceva: se pensi che sia un costo, prova l’ignoranza. Dell’integrazione si può dire lo stesso. Se pensi che sia un costo, prova il suo contrario. Che, detto brutalmente, è la dis-integrazione. Anche delle buone pratiche già esistenti (non parliamo di inventarne di nuove).
Nel frattempo, si lancia in pompa magna un condivisibilissimo piano Mattei per l’Africa, che dovrebbe essere la versione nostrana del piano Marshall. Peccato che il piano Marshall prevedesse l’investimento di oltre il 10% del bilancio federale USA a favore delle popolazioni europee, per quattro anni. E il nostro cominci invece con il taglio dei fondi alla cooperazione. Possiamo immaginare con quali efficacissimi risultati.