di Andrea Capocci. Intervista a Antonino Cattaneo, neuroscienziato a capo dell’Istituto europeo di ricerca sul cervello “Rita Levi-Montalcini”. Pubblicato in Il punto de 3 maggio 2023. Focus senilità
Professor Cattaneo, perché è così difficile curare la sindrome di alzheimer?
Per prima cosa, è una malattia difficile da individuare. Anche se attraverso la ricerca conosciamo la fisiologia della memoria e i meccanismi della neurodegenerazione molto meglio di un tempo, ancora oggi la malattia viene diagnosticata a partire da test neuropsicologici che rilevano il declino cognitivo del paziente. E quando il declino è già iniziato, i danni al cervello provocati dalla malattia sono già troppo estesi per essere curati efficacemente. Per prima cosa, è una malattia difficile da individuare.
Sappiamo cosa provoca la malattia?
Già Alois Alzheimer, lo scopritore della malattia, osservò la formazione di placche e fibrille di natura proteica nel cervello dei pazienti. Le placche sono costituite da una proteina detta precursore della beta-amiloide. Ma l’osservazione diretta delle placche non aiuta la diagnosi, perché si può fare solo dopo la morte o, comunque non allo stadio sufficientemente precoce della progressione della malattia.
Molti scienziati pensano che i primi studi sull'origine amilode siano stati manipolati.
È possibile. Tuttavia, nel tempo si sono raccolte numerosissime prove indipendenti che suggeriscono che il peptide Ab (beta-amiloide) e suoi oligomeri svolgano un ruolo cruciale nello sviluppo della malattia. Esistono anche forme ereditaria della malattia legate alla presenza di peptide beta-amiloide. Il meccanismo causale però non è ancora del tutto chiaro. Anche un’altra proteina detta tau sembra avere un ruolo chiave nella degenerazione dei neuroni.
Da anni le società farmaceutiche lavorano senza grande successo alla ricerca di un farmaco che blocchi la degenerazione.
È vero. All’inizio degli anni duemila sembrava vicino lo sviluppo di un “vaccino” contro l’alzheimer. L’idea era di esporre il sistema immunitario alle proteine dannose in modo che esso sviluppasse gli anticorpi. Il problema è che la risposta immunitaria del cervello è difficile da controllare.
Negli ultimi mesi, però, due farmaci basati su anticorpi anti Ab. Si tratta di farmaci efficaci?
Si tratta di due anticorpi, l’aducanumab e il lecanemab. Si legano alla proteina beta-amiloide e puntano a impedire che la proteina si associ ad altre proteine e formi fibrille e placche. Per la prima volta un farmaco mostrerebbe un effetto, anche se limitato, sul declino cognitivo. Nemmeno questo però può considerarsi una cura per l’alzheimer, perché la malattia avanza anche nei pazienti che lo assumono, sebbene a un ritmo più lento. Entrambi questi anticorpi hanno mostrato effetti collaterali piuttosto gravi sul cervello, come le emorragie cerebrali. C’è un altro problema da considerare, oltre alla scarsa affinità e specificità degli anticorpi verso gli oligomeri di Ab.
In che modo si può intervenire sulle proteine amiloidi dentro le cellule?
La nostra idea è di inviare nei neuroni l’informazione genetica affinché sia la cellula stessa a sintetizzare gli anticorpi che servono, indirizzandoli esattamente dove il primo danno da parte degli oligomeri di Ab. viene fatto. Cioè, vogliamo trasportare all’interno dei neuroni il dna che codifica per l’anticorpo che si lega agli oligomeri della proteina beta-amiloide. Come “veicolo” ci sono più possibilità.
La ricerca di un anticorpo è l’unica strada che state seguendo?
No, qui all’Ebri lavoriamo anche a un altro approccio basato sul fattore di crescita nervoso (ngf), la proteina scoperta da Rita Levi-Montalcini negli anni ‘50 per la cui scoperta le è stato conferito il premio Nobel.
A che punto sono queste sperimentazioni?
Per quanto riguarda gli anticorpi, siamo ancora in fase pre-clinica, cioè non sono ancora iniziate sperimentazioni sull’essere umano.
sintesi di Alessandro Bruni
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