di Luigi Viviani. Sguardi al futuro politico.
Una delle contraddizioni stridenti dell’economia italiana di oggi è rappresentata da un alto tasso di occupazione e dal livello dei salari tra i più bassi d’Europa. 23,3 milioni di lavoratori occupati, con un tasso di occupazione record del 60,9%, un aumento dei contratti a tempo indeterminato e un tasso di disoccupazione in discesa al 7,8% (anche se il tasso di disoccupazione giovanile rimane preoccupante al 22,3%). A fronte di un quadro dell’occupazione, numericamente in crescita ma di qualità ancora insufficiente, permane un livello salariale del tutto inadeguato.
Secondo una tabella dell’Ocse negli ultimi trent’anni i salari italiani sono rimasti fermi, con un leggero calo, mentre quelli tedeschi e francesi sono cresciuti del 30%. Un divario che ha determinato il 13% di lavoratori poveri, oltre 6 milioni di lavoratori con il salario falcidiato dall’inflazione, mentre, d’altro canto, il 10% più ricco degli italiani possiede sei volte di quanto posseduto dalla metà della popolazione italiana.
Una contraddizione che, nella sostanza, ha un preciso significato economico e politico. Cioè negli ultimi trent’anni l’Italia ha supplito ai ritardi strutturali del suo sistema produttivo, cercando di mantenere una sua competitività a spese dei salari dei lavoratori. Ovviamente, dietro questo giudizio di sintesi, c’è una realtà sottostante più complessa e articolata ma che, alla fine, porta a questo risultato. Tuttavia, i suoi effetti sul sistema economico sono di tutta evidenza.
Da un lato si riducono i consumi, si aumenta il lavoro povero specie giovanile, si riduce la spinta imprenditoriale all’innovazione e all’efficienza, e quella dei lavoratori a migliorare la qualità del proprio impiego attraverso formazione e competenza, dall’altro si rafforzano le cause strutturali che riducono la crescita e aumentano le disuguaglianze, con effetti negativi sul futuro. Per reagire a tale tendenza è necessario affrontare il problema alla radice. L’esperienza ha dimostrato che la crescita strutturale dei salari è legata alla crescita economica e all’aumento della produttività delle imprese, cioè della capacità di ottenere un risultato maggiore dei mezzi impiegati.
La crescita della produttività dipende da diversi fattori, come l’innovazione, la dimensione aziendale, l’apertura verso l’estero, la qualità del lavoro e delle reazioni sindacali. Nell’insieme di questi fattori, l’Italia manifesta una serie di limiti e di ritardi per cui Bankitalia ci ricorda che dal 1995 ad oggi la produttività del lavoro è cresciuta da noi del 10% mentre nella media europea è aumentata del 35%, e un divario, più o meno analogo, si è manifestato anche nella produttività totale dei fattori. Per rendersi conto di tale realtà basta prendere visione di alcuni fatti come il ritardo italiano in materia di innovazione digitale, tecnologica e organizzativa, la prevalenza delle pmi nella struttura del made in Italy, un export concentrato in pochi settori, il basso tasso di istruzione fino alla laurea e della formazione rispetto alla trasformazione del lavoro, l’incertezza e la precarietà del lavoro disponibile sul mercato.
Quindi mentre le cause dei bassi salari attengono soprattutto alla concreta realtà del processo produttivo e del lavoro, attualmente, nei vari soggetti interessati, prevale la scelta di affrontarle per via politica attraverso le scelte del governo. Non che l’azione di governo non abbia responsabilità in merito, ma il suo intervento, senza una parallela azione delle parti sociali, è destinata a influire solo si alcuni aspetti particolari e non decisivi.
Nel rapporto governo, politica e parti sociali, il dibattito e le scelte si sono concentrate sul Dl Cutro, cioè sul taglio del cuneo fiscale, su una maggiore flessibilità nei contratti a termine, e sulla sostituzione del Reddito di cittadinanza. In particolare sul taglio del cuneo, che influisce direttamente sul costo del lavoro, nonostante l’enfasi propagandistica del governo, non si è andati oltre a una limitata e temporanea riduzione del cuneo, ampiamente, condizionata dal vincolo del nostro debito pubblico. A livello legislativo è stato proposto anche il salario minimo che avrebbe un concreto effetto di innalzare la media dei salari e ridurre le disuguaglianze, alla condizione che esso si colleghi alla contrattazione collettiva per evitare una doppia, negativa regolazione dei salari.
Per superare la contraddizione tra le cause di compressione dei salari e gli ambiti e le modalità con le quali finora si è intervenuti, credo sia necessario che ogni soggetto coinvolto riveda il proprio ruolo e si assuma fino in fondo le proprie responsabilità. Innanzitutto, il governo dovrebbe acquisire una visione più completa del problema dei salari che finora è mancata, e concentrare il suo impegno sul Pnrr, superando le manchevolezze e i ritardi manifestati finora, perché dalla sua corretta realizzazione potranno derivare conseguenze del tutto impensate sulla crescita e la produttività del sistema. Sul terreno più specifico dovrebbe operare per rendere strutturale il taglio del cuneo e assumere la scelta dell’introduzione del salario minimo in termini di obiettivo da raggiungere tramite la contrattazione tra le parti sociali. Un nuovo ruolo protagonista dovrebbe essere assunto dal sindacato perché la crescita e la regolazione dei salari appartiene, in particolare, alla sua sovranità. In tal senso il sindacato dovrebbe recuperare maggiori orgoglio e responsabilità circa un esercizio innovativo della contrattazione collettiva ai diversi livelli.
Data l’estrema diversità dei vari ambiti del nostro sistema produttivo il livello salariale dovrebbe essere definito tramite la contrattazione aziendale e nazionale di categoria, anche se, per la particolare diffusione delle nuove tecnologie, alcune regole e diritti comuni dovrebbero essere definite a livello interconfederale. Un forte rilancio della contrattazione collettiva, sull’insieme dei temi connessi alla crescita dei salari, avrebbe anche l’effetto di stimolare e risvegliare lo spirito innovativo degli imprenditori italiani, attualmente piuttosto rinsecchito dietro le richieste corporative rivolte al governo. Il rapporto sindacati-governo dovrebbe proseguire per adeguare le politiche del lavoro sia per contribuire alla crescita del potere d’acquisto dei salari che per realizzare tutele e diritti del lavoro propri della nostra democrazia costituzionale. La qualità di questi impegni richiede, tra i sindacati, il massimo di unità possibile, anche tramite il rilancio del processo di unità sindacale che rimane un punto fisso per un suo futuro da protagonista. Inoltre, un ruolo importante spetta anche ai partiti, nell’elaborazione di una politica di sviluppo, nella quale il lavoro e il suo salario siano parte rilevante.
Un compito che in particolare spetta al Pd essendo il lavoro e la sua dignità parte rilevante della propria identità. In questo compito, per tutto quello che abbiamo indicato, è importante che il Pd consolidi un rapporto con il sindacato, con il quale, nel rispetto della reciproca autonomia, può avere uno scambio positivo di idee e di esperienze. Un rapporto diverso da quello attuale del Pd a gestione Schlein, che privilegia la semplice partecipazione a momenti di lotta comune in piazza. Una sovrapposizione che, credo, non serva granché all’autonomia e all’efficacia dei rispettivi ruoli