di Domenico Barrilà. Psicoterapeuta adleriano. Pubblicato nel blog dell'autore Voce del verbo stare il 29 maggio 2023.
Rifletto sull’opportunità di inserire il sostantivo individualismo direttamente nel titolo del volume al quale lavoro da due anni o di utilizzarlo solo in un eventuale sottotitolo.
Alcune delle persone cui sottopongo qualche capitolo, condividono tale dubbio.
Forse la ragione di tale prudenza si trova nel dizionario, che definisce l’individualismo in maniera piuttosto drastica, una “Tendenza a svalutare gli interessi o le esigenze della collettività, in nome della propria personalità o della propria indipendenza o anche del proprio egoismo”.
Nessuno comprerebbe un titolo del genere perché troppo “autobiografico”, ci siamo di mezzo tutti, ognuno con modalità proprie. Non tutti, però, siamo individualisti puri, dipende da come e quanto temperiamo tale inclinazione che, per la verità, non è facile da tenere sotto controllo.
Farsi gli affari propri, fregarsene di quello che c’è fuori dai confini del nostro corpo, è una tentazione costante. Qualcuno sul “me ne frego” è riuscito a costruire le proprie fortune, diventate in un paio di decenni le tragedie di interi popoli. Sarebbe interessante scoprire perché puntando su quelle tre parole mortali, qualcuno è riuscito a impossessarsi di un’infinità di destini, potrebbe significare che esse possiedono un mercato fiorente, anche tra coloro che dicono di rifiutarle.
Vero, come dice Michael Tomasello -co-direttore del Max Plank Institut a Lipsia-, che siamo altruisti nati, ma la fatica di restarlo è improba, soprattutto quando viene sistematicamente minata nelle relazioni educative, nei primi anni di vita, quando la pressione dei grandi agisce quasi indisturbata. Ad esempio, mi chiedo perché i bambini tra di loro non facciano caso al colore della pelle o alle differenze religiose, ma poi da ragazzi e da adulti diventino più sensibili a questi aspetti. Non vi è quasi nulla di genetico nell’individualismo e nelle conseguenze, gravissime e quotidiane, che produce.
Una bambina di undici anni, bella e intelligente, figlia di africano e di un’italiana, comincia a mostrare una certa malinconia, intuisce qualche fatica con i compagni di classe, che sono prossimi alla fine delle elementari. In prima non era così, in quinta qualcosa sta cambiando. Si avvilisce per questa somma ingiustizia a cui non riesce neppure a dare un nome preciso.
In questi pochi anni, il tempo che chiamiamo infanzia, molti bambini si impregnano, per immersione, della cultura individualista dei grandi, sentendo i loro discorsi, pesando i loro atteggiamenti. Non sanno, adulti e bambini, che l’incremento dell’individualismo ucciderà, letteralmente, alcuni di loro.
Stamattina, confrontandomi con un amico sull’opportunità di un’opera mastodontica in un’area potentemente sismica, dove mancano molti servizi essenziali e la stessa speranza di vita è più bassa che in altre parti del Paese, gli avevo scritto che il ponte Morandi è caduto perché tutti vogliono costruire cattedrali e edifici magniloquenti per essere ricordati. Ma se fosse solo questo, sarebbe persino giusto continuare, il fatto è che costruire cose belle porta popolarità a chi le immagina e le realizza, mentre manutenere quelle stesse cose rimane un’opera silenziosa, nessuno la vede, dunque sovente non viene eseguita.
Questa è una delle facce più tremende dell’individualismo.
Una violenza strisciante, che produce più danni di tante guerre messe assieme, alimentata anche dalla deformazione culturale, quotidiana, operata dai comunicatori di professione, consulenti, influencer, messaggeri di un mondo dove esiste solo l’oggi, un puntino nel tempo che non richiede manutenzione e può fare a meno dell’altruismo.