tratto dall'articolo "La verità sulla guerra da un manuale di chirurgia" di Simonetta Pagliani. Pubblicato in Scienza in rete del 5 maggio 2023.
Gino Strada, il chirurgo che ha fondato l'onlus Emergency, s'indignava per l'assuefazione (e, di fatto, l'indifferenza) indotta dai quotidiani bollettini di guerra diffusi dai media: bastano pochi secondi per archiviare nella mente il numero dei morti e dei feriti e per deviare il proprio interesse sulle dispute tra cancellerie. Strada, dopo aver visto, toccato, inciso, amputato e suturato, sosteneva, invece, che "parlare dei morti e dei feriti è l'unico contenuto importante dei discorsi sulla guerra".
Una visione autentica della guerra può essere ricavata dalla lettura di War Surgery: Working with Limited Resources in Armed Conflict and Other Situations of Violence (Vol 1 e Vol 2), manuale in due volumi corredati da eloquentissima iconografia e interamente scaricabili da internet, con il quale Marco Baldan, Chris Giannou e Åsa Molde, tre chirurghi di guerra che hanno lavorato per il Comitato internazionale della Croce Rossa, insegnano la cura in ambiente ostile, la conduzione di un triage, lo sbrigliamento delle ferite, l'anatomia, la batteriologia e la balistica.
Chi viene ferito in guerra emerge dall'inferno passando attraverso vari gironi, la cui gradualità è obbligatoria e necessaria: soccorso sul campo fornito da un medico o da un non professionista; primo trattamento medico con misure di emergenza vitali; primo trattamento chirurgico con pulizia delle ferite, presso un ospedale di primo grado; trattamento definitivo con chiusura delle ferite; fisioterapia e convalescenza; chirurgia specialistica con interventi ricostruttivi ed eventuale inserimento di protesi; riabilitazione.
Chi opera, dal canto suo, ha, per guida, la regola simplicity, security and speed e il motto "salvare vita e arti, sacrificare un arto per salvare la vita, rendere la vittima trasportabile per lo step successivo, non sostituire la buona chirurgia con la chirurgia eroica". L'ampio repertorio delle lesioni di cui si occuperà va da quelle penetranti (arma bianca, proiettili, materiali scagliati dal vento di raffica di un'esplosione) a quelle da schiacciamento (incidenti con veicoli, crollo di edifici, percosse), alle ustioni.
Quando l'onda d'urto investe una persona non protetta, i differenziali di pressione agiscono in modo particolarmente acuto nelle interfacce aria-solido (orecchio), aria-fluido (visceri cavi, alveoli polmonari) e fluido-solido (vasi sanguigni): l'aria viene compressa di colpo dall'onda di pressione positiva e si ri-espande violentemente nella fase di pressione negativa, allungando eccessivamente i tessuti, fino a lacerarli.
Il forte vento d'urto che segue l'esplosione può causare la disintegrazione totale del corpo di chi è nelle immediate vicinanze della bomba e amputazioni traumatiche ed eviscerazione di chi è più lontano o sollevare oggetti che producono ferite penetranti anche a grande distanza. La palla di fuoco (che può raggiungere i 3.000° C) provoca ustioni, inalazione di gas tossici, di fumo o di polvere e asfissia da monossido di carbonio.
Oggi, le armi per uso militare sono tutte ad alta energia, con velocità iniziale superiore a 600 m/s e grande massa dei proiettili. Per la maggior parte sono fucili automatici (che sparano più colpi con una sola pressione del grilletto), mitragliatrici o pistole semiautomatiche (che si ricaricano automaticamente, ma sparano ogni colpo singolarmente).
Alcuni proiettili, raggruppati sotto il termine "dum-dum", sono costruiti apposta per deformarsi e per espandersi nel corpo della vittima. Dal 1999 sono illegali per uso militare, perché provocano ferite disumane: secondo il diritto internazionale, i proiettili delle armi da fuoco dovrebbero soltanto "rendere inutilizzabile il maggior numero possibile di uomini” e “tale scopo sarebbe superato dall'impiego di armi che aggravano inutilmente la sofferenza di uomini mutilandoli o rendono inevitabile la loro morte”.
Purtroppo, ancorché proibito, l'uso nei conflitti armati di proiettili dum-dum viene ancora perpetrato in alcuni conflitti (oltre che da alcune forze di polizia, anche europee). D'altronde, anche il proiettile più in uso, interamente rivestito di metallo (full metal jacket), è indeformabile solo in teoria, perché durante il tragitto nel corpo si può deformare o frammentare, dopo aver sviluppato, come programmato, una o due cavità temporanee a pressione negativa, che attraggono residui vari (ferita "umana"?).
Secondo l'esperienza del chirurgo traumatologo statunitense Donald Dean Trunkey, la mortalità per ferite di guerra si distribuisce così: 50% di morti immediate, per lesioni estreme; 30% di morti precoci, nelle prime ore dopo il trauma, per emorragia profusa, vie aeree compromesse, respirazione impedita; 20% di morti tardive, da pochi giorni a settimane dopo la lesione, per infezioni, insufficienza multiorgano, emboli ed edema cerebrale.
Dopo l'emorragia, la sepsi è il pericolo maggiore del ferito in guerra. Nella situazione bellica, il terreno di coltura dei germi è ottimo e abbondante: in una lesione da arma da fuoco, è la miscela di muscolo morto, ematoma, frammenti ossei, pelle sporca e materiale estraneo (pezzi di stoffa o scarpa, fango, ghiaia, foglie, polvere, di proiettile, ecc.); se è esplosa una bomba, possono aggiungersi frammenti ossei di altre persone, penetrati come proiettili secondari.
La formazione di una cavità da parte di un proiettile "risucchia" i possibili contaminanti nelle profondità della ferita, ma l'infezione non si manifesta per le prime 6 ore. Entro questo tempo, le ferite di guerra devono essere sbrigliate: si tolgono, sotto anestesia, medicazioni e stecche, si lava con acqua e sapone e si rade un'ampia area di pelle circostante la ferita e la si cosparge di disinfettante iodato, la si allarga e la si irriga nuovamente, per rimuovere sporco e detriti, con molti litri di soluzione fisiologica sterile, se c'è o, se non c'è, di acqua potabile (“se puoi berla, puoi metterla in una ferita sporca").
Anche quando sono causate dalla stessa arma, le ferite non sono mai uguali fra loro: il chirurgo deve aprire col dito guantato la traccia del proiettile attraverso i muscoli, strato dopo strato, per visualizzarla bene, cercare e rimuovere i tessuti morti e contaminati fino a esporre il tessuto sano. Poi deve lasciare la ferita aperta, non suturata, ma sigillata con una medicazione asciutta di garza e cotone, voluminosa e non troppo stretta, da lasciare in situ per 4-5 giorni, resistendo alla tentazione di cambiarla per "dare un'occhiata a come sta": l'ispezione aumenta il trauma, ritarda la guarigione ed espone alle temibili infezioni ospedaliere. È, invece, utile annusare: le ferite in attesa di chiusura sviluppano, col tempo, l'odore aspro dei prodotti ammoniacali derivanti dalla scomposizione delle proteine del siero, un "buon cattivo odore" che medici e paramedici imparano presto a distinguere dal "cattivo-cattivo odore" di una ferita infetta.
Nel manuale, infine, non è taciuta la possibilità di danno iatrogeno e la necessità di un suo contenimento; tutti i chirurghi possono sbagliare, intervenendo in eccesso o in difetto e lo fanno anche i chirurghi di guerra, sottoposti a fatiche, stress, paure e disagi che sono inimmaginabili nei reparti degli ospedali cittadini in tempo di pace.
sintesi di Alessandro Bruni
per leggere l'articolo completo aprire questo link