Don Milani capovolto?
scritto da Andrea Gandini. Economista, analista del futuro sostenibile.
Dopo le critiche (ingiuste) a don Milani di Luca Ricolfi, per il quale avrebbe contribuito (con l’idea che “la scuola pubblica non può bocciare”) ad una semplificazione della scuola, arrivano ora quelle di Galli della Loggia che cita Adolfo Scotto di Luzio (L’equivoco don Milani, ed. Einaudi), secondo cui il priore di Barbiana è stato usato (a sproposito) nel post ’68, come profeta di quella “scuola democratica” che tanti mali ha prodotto nell’istruzione pubblica.
Il libro di Scotto di Luzio è una documentata analisi di “Lettera a una professoressa” che don Milani scrisse dopo che uno dei suoi allievi tentò di inserirsi nella scuola pubblica venendo però bocciato. Scotto ha ragione sul punto che secondo don Milani la scuola pubblica era organizzata per ratificare la subalternità sociale delle classi popolari attraverso una istruzione “colta”, priva di qualunque utilità pratica e che quindi ai poveri diceva poco o nulla e che proponeva come modello la modernità borghese al posto della tradizione contadina e popolare (l’italiano al posto del dialetto, i grandi pensatori classici al posto dei sarmenti). Del resto la riforma Gentile vigeva ancora, il cui obiettivo era formare una classe dirigente che studiasse le cose più lontane possibili dal sapere manuale e contadino.
Per onestà intellettuale, bisogna però evitare di tirare don Milani a destra o a manca e riconoscere il suo autentico messaggio, che anche oggi sarebbe eterodosso. Spedito dalla curia in una frazione sperduta, Barbiana, di Vicchio del Mugello, per le sue idee contro la guerra, i cappellani militari e l’obiezione di coscienza, fu un contestatore del potere e, nell’istruzione, uno sperimentatore generoso e audace che si cimentò in quella che oggi sarebbe una piccola scuola privata (home schooling) rivolta a un piccolo drappello di contadini che mai avrebbero studiato (“la scuola è meglio della merda”) se non fosse stato per la sua iniziativa.
E non è vero –come scrive Galli della Loggia su Il Corriere della Sera 1.6.2023- che “dei modi di insegnare a lui non interessava davvero nulla”. E’ stata proprio di don Lorenzo la capacità di integrare lo studio “classico” (che oggi diremmo “istruzione”) con le conoscenze di vita e lavoro dei suoi contadini, affermando un concetto oggi largamente accettato dagli esperti, e che cioè si apprende dallo studio, ma anche dal lavoro e dalla vita, acquisizione che la nostra scuola pubblica non è stata capace di inverare, nonostante decine di sperimentazioni di successo in tal senso (da Fiorenzo Alfieri, maestro elementare e assessore di Torino dal 1976 al 1980, all’odierno movimento della scuola pubblica all’aperto, alle scuole private Steiner e Montessori, etc…, ben altro che “scuola facilitata”).
Per don Milani il sapere si estendeva anche a quelle conoscenze popolari, contadine (i “sarmenti”) che non sono da meno di quelle borghesi-moderne. Nella cultura contadina e popolare c’è sempre stata una saggezza profonda che si esprimeva anche nel dialetto e i sarmenti1 sono i tralci recisi della vite a cui i contadini cambiano nome nel momento in cui non sono più attaccati alla vite. Non è un dettaglio sconosciuto ai cittadini borghesi, ma il significato profondo di un mondo contadino (oggi diremmo la “tradizione”) che l’umanità ha conquistato in 2mila anni di storia, che sa quanto sia importante conoscere la Natura ed aver un rapporto armonico con essa e che, finchè c’è questo rapporto, c’è la vite e il tralcio (da cui filosoficamente nasce il concetto di “libertà nella responsabilità” o di “limite”, che quando vengono meno portano al declino o alla morte (anche se c’è modernità) e il tralcio diventa un sarmento, in quanto reciso, cade a terra autodistruggendosi.
Un tema riproposto da Pasolini (tradizione verso modernità) che si ripropone oggi in modo acutissimo dopo 30 anni di iper-modernizzazione, iper-globalizzazione e dell’assunto che la “modernità” è la nuova religione occidentale, come se tutto ciò che è tradizione fosse da buttare e ciò che è moderno sia sempre e comunque da venerare.
Altro che don Milani! E’ nei social, nelle minacce della modernità e in una scuola imbalsamata da 50 anni che bisogna cercare le cause dei disturbi da ansia e depressione che sono cresciuti dal 10% al 23% tra gli adolescenti in Occidente, come gli atti di autolesionismo e i tentati suicidi a causa delle pressioni dei social (spietati), delle opinioni dei pari (agonistiche) dovute all’uso eccessivo delle piattaforme e dei recenti lockdown nelle scuole. Così crescono i ritiri dalle scuole, i casi Hikikomori, che colpisce i più deboli (o col revenge porn le ragazze) del “branco” e si passa dai giudizi dei genitori a quelli dei pari (i fratelli poi non ci sono più). Allarmi che ora lanciano anche gli adulti per gli effetti devastanti a cui sta portando l’accelerazione senza gradualità del digitale, dell’Intelligenza Artificiale deregolata (da chatGpt in poi) che quasi sempre rende la vita, il lavoro e l’istruzione meno umana. Il potenziamento della “tecnica” e delle tecnologie senza regolazione morale distrugge forme di vita e di relazioni prodotte in centinaia di anni (di cui parla Umberto Galimberti nel suo libro L’ospite inquietante, I giovani e il nichilismo).
In tal senso non è vero che don Milani (come dice Galli della Loggia) “non ci aiuta per nulla a rispondere alla domanda cruciale dell’istruzione obbligatoria: che cosa fare con quelli che non ce la fanno?”
E’ vero che don Milani non era per bocciarli, ma non era neppure per la scuola “facilitata”. Cercava vie nuove affinché i suoi contadini potessero apprendere dalla via della Istruzione (che diremmo classica, passare dalle cento parole dell’operaio e contadino alle mille del padrone), ma anche dalla via della Sperimentazione, facendo tesoro di quel lavoro (contadino) e della vita che i suoi poveri studenti conducevano (al fine di motivarli) e che la scuola non annullasse quella cultura popolare, le tradizioni, la stessa religiosità e spiritualità per proporre quella modernità alienante (dalle mode, agli svaghi, ai biliardini,…) che il priore odiava in quanto distraevano dalla cultura comunitaria e dalle tradizioni.
Temi oggi di enorme attualità che indicano come la via da seguire per la scuola pubblica non sia quella del solo “modernizzare” (sempre più astratta, digitale con lim, pc et similia 4.0). Si dovrà pur riflettere del perché dopo decenni metà 15enni non sappiano né leggere, né scrivere, né fare un’operazione elementare di matematica. Non c’è solo la “scuola facilitata” di cui parla Ricolfi (che ha in parte ragione), ma qualcosa di più profondo che ha sfasciato la scuola. Da qui la necessità di riprendere sperimentazioni che portino ad un apprendimento più efficace (indicate anche da don Lorenzo) che vengono da nuove forme di insegnamento. Solo dopo una stagione di sperimentazioni e di confronto tra esse si potrà avviare una sintesi che porti ad rinnovamento del modo di insegnare nelle scuole pubbliche, anziché improvvisarsi (per ragioni elettorali) in innovazioni nazionali senza alcuna sperimentazione che, non a caso, da decenni vengono introdotte e poi svaniscono in un declino continuo. Né abbiamo un sistema di valutazione delle scuole (tutte), come avviene all’estero, per cui tutte vanno bene, a prescindere.
Da ‘Lettera a una professoressa’: “…gli insegnanti smettano di fare le cose difficili che umiliano i poveri, e interroghino i poveri sulle cose che già sanno…a scienze ci parlerete di sarmenti e ci direte il nome dell’albero che fa le ciliegie”. Per Paola Mastrocola è proprio questa facilitazione che spiazza i poveri, i quali hanno tutto il diritto invece di essere formati sui grandi pensatori del passato, sull’Iliade e l’Eneide. E come non essere d’accordo. Se molte cose scritte in questo libro controcorrente sono (a mio parere) condivisibili, non lo è la critica a don Milani che non c’entra nulla con la “facilitazione” della scuola. Milani fece una critica alla scuola selettiva degli anni ‘60 (morì nel 1967), severa ma anche élitaria e ferocemente selezionatrice delle classi socialmente più emarginate che, bocciate, potevano andare a lavorare. Allora la battaglia (sacrosanta) era per un modello di scuola meno “astratta”: non si metteva in discussione solo la selezione quasi sadica contro gli ultimi (non c’era tempo pieno, né sostegni), ma soprattutto si batteva per una scuola che garantisse a tutti l’accesso al pensiero, ma che motivasse anche gli alunni più poveri, parlando del loro mondo e così motivandoli.