di Luigi Viviani. Sguardi al futuro politico.
Il PNRR varato dall’Unione Europea, come risposta positiva ai problemi posti dalla Pandemia, e dalla successiva crisi economica, ha distribuito le risorse tra i diversi Stati membri, assegnando all’Italia la quota superiore di tutti, pari ad una cifra complessiva di oltre 200 miliardi. Una entità di risorse che ha fatto di questo piano, il progetto di sviluppo più rilevante della storia della Repubblica, un'occasione tanto più importante perché consente di superare i limiti dovuti al livello di debito pubblico del nostro Paese.
La prima fase della sua applicazione, gestita dal governo Draghi, si è avvalsa di due punti di forza rappresentati dalla competenza e dal prestigio internazionale del premier di allora, unito alla scelta di un team di esperti, che hanno reso possibile un avvio della sua applicazione in termini di qualità delle scelte nei due ambiti nei quali il Piano si articola: gli investimenti e le riforme. Ciò nonostante, il governo Draghi fu fatto bruscamente cadere per la scelta, tesa essenzialmente alla conquista del potere, da parte di una coalizione di destra-centro, precaria nella sua strategia politica, che ha dato vita al governo Meloni, di segno euroscettico e portatore di criteri di gestione del Pnrr radicalmente diversi. Invece di valutarlo e gestirlo come eccezionale occasione di sviluppo, con la possibilità di affrontare gran parte dei limiti strutturali del nostro modello di sviluppo, si è posto il problema di una sua rinegoziazione per adeguarlo alle scelte strategiche diverse del nuovo esecutivo.
Fin da subito, sono emersi tutti i limiti culturali e gestionali rispetto al governo Draghi, al punto da maturare un grave ritardo sia nella gestione degli appalti e dei cantieri che delle riforme, il tutto aggravato dalla progressiva fuga degli esperti scelti in precedenza. L’errore più grave è stato quello di non aver collegato il Pnrr ad una strategia di cambiamento strutturale dell’economia e della società italiana, coinvolgendo e mobilitando, in tal senso, l’intero Paese, nelle sue diverse istituzioni e territori, per raggiungere alcuni traguardi storici del suo percorso di crescita, a partire dalla riduzione del divario Nord-Sud. Invece il tutto si è si è progressivamente ridotto in un accumulo di ritardi, scelte non fatte e riforme abortite, al punto di quasi bloccare il flusso di risorse a sostegno del Piano, come è stato reso evidente dal complicato iter della terza quota di finanziamento, pari a 19 miliardi di euro.
Di fronte a tali difficoltà, la reazione del governo Meloni è stata quella di ridurre gli obiettivi del Piano ad una quantità di risorse, tutte da spendere, indipendentemente dalla loro destinazione. Con il passare del tempo, e nonostante i consigli e il sostegno del commissario Ue Gentiloni, il Pnrr italiano ha continuato a manifestare sempre ulteriori limiti e contraddizioni, fino a mettere in discussione la stessa riuscita dell’intero Pnrr europeo.
A questo punto l’Ue ha manifestato una certa disponibilità a discutere alcune modifiche ma il governo italiano, a più riprese, non è apparso pronto e rendere evidenti i punti da modificare, anche a causa dei dissensi e conflitti che si sono manifestati sia nella maggioranza di governo che con le diverse istituzioni coinvolte nella realizzazione del Piano (Regioni, Comuni) e delle stesse imprese. Nello stesso tempo l’Italia, unico Paese tra i 27 Stati membri dell’Ue, ha mantenuto il no alla ratifica del fondo salva Stati (Mes), cercando anche di usare tale resistenza come elemento di scambio, in una ipotetica trattativa, sulla riforma delle regole future dell’Ue, contenute nel nuovo Patto di stabilità, e ha cercato di creare le condizioni per una alleanza strategica Conservatori-Ppe per cambiare radicalmente il percorso di costruzione dell’Unione europea.
Un insieme di posizioni di rivendicazione corporativa, e di conflitto tese a rimettere in discussione il percorso di avanzamento e la stessa identità dell’Ue. Pur avendo presente che gran parte di queste posizioni riflettono più l’illusione di poter far tornare indietro il rapporto di sovranità tra la Ue e gli Stati membri, risulta fin troppo chiaro che questo ruolo dell’Italia è destinato a determinare una caduta verticale del livello di credibilità del nostro Paese in ambito europeo e internazionale.
Una prospettiva tutt’altro che campata in aria se teniamo presente che negli ultimi giorni il problema del ruolo dell’Italia in Europa, in particolare sull’annosa questione della ratifica del Mes, sta determinando tensioni e conflitti nei vari segmenti della maggioranza den governo. Un problema della massima gravità che chiama direttamente in causa anche l’opposizione. Finora il Pd, a parte qualche fugace dichiarazione di singoli dirigenti, appare non molto attento a tale questione. Un altro limite della qualità del suo ruolo concreto.