di Stefano Allievi. Sociologo del mutamento culturale. Pubblicato nel blog dell'autore il 4 giugno 2023.

Stefano allieviA qualcuno non piace perché sarebbe un’esibizione, un’inutile ostentazione. Certo, questo elemento (in alcuni) c’è. Chiunque indossi simboli e richiami identitari, politici o religiosi o calcistici, fa questo. Lo fa anche chiunque esibisce abiti griffati o ostenta auto di lusso davanti al bar preferito. Lo fa chi mostra con orgoglio il suo abito da lavoro come uno status (ricordiamo i camici bianchi durante la pandemia?). Lo fanno i militari, i religiosi, gli scout… E tanti altri, di cui non si dice che esibiscono e ostentano.

A qualcun altro non piace perché ci sono degli eccessi di cattivo gusto. E occasionalmente ci sono. Anche se davanti al cattivo gusto altrui, in quasi ogni ambito della vita sociale (ma anche della politica, che così spesso e così volentieri lo esibisce, lucrandone per giunta un dividendo, o nella pubblicità, o in TV), non ci sentiamo in diritto di reagire, di protestare, e nemmeno di farlo notare: lo subiamo, lo accettiamo, come accettiamo l’esistenza dell’imbecillità – come un dato. E certo non amiamo sentircelo dire, quando il cattivo gusto è il nostro.

Ad altri, infine, non piace che ci siano talvolta provocazioni irreverenti e anche offensive: blasfeme, nell’opinione di qualcuno. Può spiacere, e lo si capisce: e tuttavia, oltre al fatto che la provocazione e l’irriverenza caratterizzano spesso anche la critica sociale, la comicità e l’arte, e sono utili canali di riflessività per la società, a qualcuno potrà servire riflettere su quanto, troppo spesso, simboli e credenze cui si mostra irriverenza sono stati usati contro le minoranze, e quella che si riconosce nel Pride in particolare, come oggetti contundenti, armi improprie, strumenti di battaglia – per negarli, i diritti, la legittimità di un comportamento, la dignità sociale.

Così reagendo, ci sfugge il significato profondo di questo dirsi e di questo mostrarsi, anche con fierezza, con orgoglio (pride, appunto). Che è quello di manifestare un’adesione al patto sociale, ma a modo proprio: il dire ci sono anch’io, e ho diritto anch’io di esserci, a modo mio, ma con voi, di fronte a voi, con tutti voi, e con gli stessi diritti (a essere parte, a essere preso in considerazione) di tutti voi. È una rivendicazione basilare di cittadinanza, di un diritto universale, non particolare, ad essere parte dello stesso tutto.

Manifestare, manifestarsi, vuol dire questo. E vuol dire anche, almeno per un giorno, occupare il territorio, le strade, le piazze che in altri giorni sono ancora, troppo spesso, luoghi di offesa, di discriminazione, di insulto (“frocio”, o simili, condito di aggettivi pesanti o intimazioni a non esistere), di violenza agita, non solo verbale, dunque di negazione di un diritto. E un diritto, se non è di tutti, è solo il privilegio di alcuni, anche se questi sono o pretendono di essere la maggioranza. E quindi è una presa di parola, il Pride. Per una volta, parliamo noi. Occupiamo noi le strade e le piazze, le città, a modo nostro.

Dovrebbe colpire, invece, che tutto questo avvenga in maniera normalmente pacifica, colorata, divertente e divertita. Quando c’è stata violenza, sono stati altri i suoi attori: i gruppi omofobi, e talvolta, in passato, le forze dell’ordine. Sono altri, gli altri, i violenti, gli aggressori, i portatori di istanze monocolore quando non di un’anima nera, seriosa e rabbiosa, da usare contro gli altri.

Per questo, anche io, persona che i più definirebbero cisgender (ma bisogna stare attenti alle etichette semplificatrici: sotto c’è sempre qualcosa di più complesso e articolato) o eterosessuale nei suoi ruoli pubblici (marito di una persona di altro sesso, padre: ruoli che al mondo LGBTQ+ sono formalmente negati), oggi sarò al Pride. Per rivendicare i diritti di tutte le diversità: tutte quelle, almeno, che non confliggono con le regole del patto sociale. E questa è una di quelle, anche se molti pensano che non sia così, solo perché, pur esistendo il fenomeno da quando esiste l’umanità, il suo riconoscimento e la sua progressiva accettazione pubblica è storia recente (non diversamente dai diritti delle donne, verrebbe da dire). E anch’io sarò più colorato del solito: e, forse, se non più divertente, almeno più divertito del solito.