di Stefano Allievi. Sociologo del mutamento culturale. Pubblicato nel blog dell'autore e in Corriere veneto il 16 luglio 2023.
Tre persone. Di questo stiamo parlando. Tre giovani. Tre persone, in paesi che vanno dai 3.400 abitanti di Gambellara, i 4mila di Brogliano, i 6mila di Castelgomberto, i 7.500 di Sovizzo, i 9mila di Trissino, fino ai 12mila di Altavilla Vicentina e di Cornedo. Si va dallo 0,09% della popolazione di Gambellara allo 0,025% di Altavilla. Insostenibile?
Se ne fossero arrivate trenta in un giorno dal paese vicino, o dalla Romania, nessuno se ne sarebbe nemmeno accorto, né gli avrebbero detto di tornarsene al loro paese, o si sarebbero lamentati che non c’è lavoro né casa per tutti (non è vero, peraltro: se esistessero dei meccanismi di incontro della domanda e dell’offerta troverebbero lavoro in 24 ore – la richiesta c’è – e casa pure, se la si affittasse alle persone di colore anziché rifiutargliela, come spesso accade). Se fossero arrivati tre o trenta ucraini, li si sarebbe aiutati. E allora ammettiamolo, che – tra le altre cose – è il colore della pelle che dà fastidio. Oltre che il metodo.
Certo, il prefetto di Vicenza ha sbagliato grossolanamente nei modi. Ed è già stato rimproverato dal suo stesso ministro, e magari pagherà il modo maldestro di gestire le cose, in termini di carriera. Ma sono i comuni veneti, è la cultura politica maggioritaria del Veneto ad essere sul banco degli imputati. Non si può sentire – ed è da vergognarsi – che il Veneto, che ha una popolazione (in calo) che è oltre l’8,2% di quella italiana, che produce il 9,2% del PIL nazionale e si vanta di crescere più dell’Italia, e che ha pretese di guida morale oltre che di locomotiva economica del paese, abbia concordato di avere al massimo solo il 6% dei richiedenti asilo del paese, ne abbia in realtà molti meno, e si lamenti pure.
E se i prefetti sono arrivati a questo è perché la maggior parte dei comuni veneti non accoglie nemmeno un richiedente asilo, e il Veneto è una delle regioni che ha attivato meno SAI (i progetti di accoglienza gestiti dagli enti locali): i comuni che hanno attivato dei progetti sono solo 19 su 563, per un totale di 888 posti, collocando il Veneto al quindicesimo posto tra le regioni italiane (siamo la quarta, per popolazione) sia per numero di comuni coinvolti che per numero di posti, con il 2,02% del totale delle persone accolte dai SAI in Italia, e l’1,2% dei minori. Che non sia un grande sforzo, si può dire?
Eppure l’accoglienza diffusa è l’unico modo di far funzionare l’integrazione (e funziona, se si vuole). E anche, tatticamente, per i sindaci, sarebbe il solo modo di evitare di vedersi nascere un CAS, un Centro di Accoglienza Straordinario, nella porta accanto al municipio, gestito a scopo di lucro e non di integrazione. Solo che per fare un SAI occorre lavorare (anche in regione, coordinando e promuovendo, almeno, non solo nei comuni), mentre per dire di no agli immigrati basta far uscire un po’ di fiato dalla bocca: lo stesso che esce da anni, con lo stesso messaggio, peraltro. Eppure anche i sindaci, anche i consiglieri regionali, anche i parlamentari veneti che strepitano in queste ore, li leggono, i giornali, e dovrebbero essere informati da mesi sul moltiplicarsi degli arrivi (che non si può più dire siano colpa di un governo cattivo, visto che il governo è dello stesso colore politico dei politici locali).
È sconcertante che tocchi all’impresa dire e proporre di fare quello che dovrebbe essere la politica a dire e a fare. Ed è incredibile che per sentire parole pacate e costruttive si debba aspettare Confindustria anziché il principale partito di governo del territorio, e i suoi rappresentanti. Certo, è difficile, per chi è cresciuto a pane e slogan contro gli immigrati, e retorica su “prima i veneti”, costruendoci sopra redditizie carriere politiche, dover ammettere che ci si è sbagliati.
Ma, sì, ci si è sbagliati, e sarebbe onesto ammetterlo. Hanno sparso per anni a piene mani una retorica miserabile, che con la scusa di aiutare prima gli italiani sofferenti, non ha fatto in realtà niente nemmeno per loro, salvo offrirgli un capro espiatorio che non è il vero nemico. E ora pretendono che continuare a dire di no, e basta, sia una questione di coerenza. Certo, devono salvare la faccia. Ma merita di essere salvata, quella faccia lì? O non è meglio fare buon viso a cattivo gioco e cominciare, finalmente, a rimboccarsi le maniche e lavorare anche su questo dossier, colpevolmente trascurato, e prepararsi a un futuro che sarà impegnativo? Nei prossimi mesi e anni la retorica non basterà più, nemmeno per essere rieletti.
Serviranno i fatti. Cominciamo ad occuparci di quelli?