di Stefano Allievi. Sociologo del mutamento culturale. Pubblicato nel blog dell'autore il 25 luglio 2023.
Nel derby accoglienza diffusa contro grandi strutture di accoglienza (caserme, ad esempio), come alternative possibili per accogliere i richiedenti asilo, si sta intanto scoprendo che l’opzione “né né” (né l’una né l’altra) non è più percorribile: che il comodo non fare niente di molti sindaci, puntando solo sul rifiuto aprioristico e il respingimento a prescindere, non potrà continuare.
Sono cambiate le carte in tavola ai massimi livelli governativi nazionali: dove il presidente del consiglio Meloni, lungi dall’invocare ancora il blocco navale, ammette nella sessione più autorevole ipotizzabile e fortemente voluta (la Conferenza internazionale su sviluppo e migrazioni ospitata domenica alla Farnesina, presenti i vertici di molti paesi di entrambe le rive del Mediterraneo, e la presidente von der Leyen) che l’Italia ha bisogno di immigrati. E quindi dovranno cambiare le politiche anche a livello locale (anche se fino ad ora si era predicato il contrario, il che spiega i mal di pancia visti anche in questi giorni), aiutando anche i richiedenti asilo a entrare nel mondo del lavoro il più rapidamente possibile. Da qui, l’attivarsi anche di chi prima stava immoto e in silenzio.
Viene da Vicenza, la provincia che ha visto la protesta di alcuni sindaci al ricollocamento di pochi richiedenti asilo, una prima proposta costruttiva. Due terzi dei sindaci dell’Alto Vicentino (21 su 32), con capofila il comune di Santorso che da molti anni persegue un modello funzionante di accoglienza diffusa (ha già un SAI da 23 anni, quando ancora ai chiamavano SPRAR, e un CAS), hanno proposto al prefetto un protocollo di accoglienza, che è di fatto il proseguimento di un progetto chiamato la Tenda di Abramo, attivato per accogliere i profughi ucraini da ben 27 comuni su 32. Il protocollo si basa su un patto preciso: i comuni si impegnano a reperire alloggi e nel coordinarsi con parrocchie e volontariato per dei progetti di integrazione funzionali, ma in cambio la prefettura si impegna a non inviare richiedenti asilo in misura superiore al tre per mille della popolazione – un’idea e una buona pratica nata proprio a Vicenza molti anni fa, e ripresa come modello, ai tempi, dal ministro Alfano.
Per la maggior parte dei comuni si tratta di poche unità, per i più grandi di decine, e solo per il capoluogo, Vicenza, si tratterebbe di un centinaio: ma molti comuni dei richiedenti asilo li ospitano già, quindi si tratterebbe di pochi posti aggiuntivi. E in cambio si avrebbe la garanzia che eventuali hub sarebbero collocati altrove. Non poco, per un amministratore.
Di fatto, si tratta di una specie di pre-SAI, di cui andrebbe concordata anche l’entità della diaria giornaliera: oggi i bandi prevedono per i CAS, i centri di accoglienza straordinaria, tariffe intorno ai 26-28 euro al giorno (erano scesi a 21 ai tempi di Salvini ministro dell’Interno), che finiscono per limitarsi alla sussistenza o poco più, e per favorire le strutture a mero scopo di lucro, non interessate all’integrazione; mentre per i SAI, gestiti dai comuni, vigono più ragionevoli tariffe intorno ai 40 euro. Come in altri paesi europei, dove si dà di più ma si richiede anche di più, facendo integrazione – insegnamento della lingua, formazione professionale, orientamento al lavoro, mediazione culturale – non solo accoglienza: un investimento decisivo per favorire l’inserimento sociale e culturale dei migranti, e la loro accettazione, che fa risparmiare conflitti e problemi (e persino denari) futuri.
Potrebbe essere un modello, anche di rapporto tra istituzioni: comuni e prefetture insieme, che collaborano invece di combattersi. L’esistenza di un comune capofila rende la fatica amministrativa molto leggera per tutti gli altri, e spesso si attivano rapporti virtuosi con volontariato e associazionismo che possono svolgere un ruolo utile anche in altri ambiti.
Certo, dovrebbero cambiare anche le politiche a livello nazionale, favorendo questo tipo di intese: oggi oltre 6 richiedenti asilo su 10 sono in CAS (che quindi sono diventati la politica ordinaria), anziché in SAI, molti dei quali hanno chiuso, anche per le difficoltà burocratiche frapposte, sia dai governi che dall’ANCI. E forse bisognerebbe pensare a un’obbligatorietà per i comuni (finora osteggiata) o almeno a forti incentivi per i comuni virtuosi, come già avvenuto in passato (i trasferimenti di 500 euro a migrante, una tantum, della precedente crisi). Il rischio altrimenti, come sta avvenendo proprio ora, è che si apra un terzo binario dell’accoglienza (oltre a SAI e CAS) coordinato dal Commissario all’emergenza. Dove si attivano la Croce Rossa o la Protezione Civile, in quelli che diventerebbero dei super-CAS, ma senza le competenze necessarie, e quindi con forti rischi di trasformare queste strutture in ferite sociali difficili da rimarginare.