di Giuseppe Maiolo. Psicoanalista del costume e delle età della vita. Pubblicato nel blog dell'autore il 26 giugno 2013.
Quando riprenderemo un comunicare sano e un ascolto pieno e gentile che serva per aiutarli a diventare adulti in tempi canonici?
Anni addietro con la maturità si perdeva l’adolescenza. O almeno pareva si concludesse. Di certo finiva il lungo tempo dell’attesa, quello dei sogni ad occhia aperti, dei progetti e degli amori incantati che per timidezza non riuscivi a dichiarare. Col diploma in mano, alle soglie della maggiore età in ritardo rispetto ad oggi, classificato capace di fare le tue scelte e sentirti responsabile, partivi!
Te ne andavi distante, lontano da casa, dal momento che le università non erano nella strada accanto. Iniziava una fase nuova della vita, non ancora quella professionale, ma che sentivi tua e non in prestito: decidevi tu il tempo dello studio e del divertimento, quello della solitudine o della compagnia, dell’amicizia e dell’amore.
Oggi per gli adolescenti, il tempo prima e dopo gli esami è uguale, resta sincopato, frammentato e nevrotizzante. Corre velocissimo, ma la crescita è lenta, l’autonomia scarsa e la comunicazione povera. Anzi poverissima sul piano lessicale, affidata a un continuo messaggiare e a un pensiero omologato, per nulla critico. In casa, e non solo lì, si parla senza ascoltarsi, con poco dialogo perché «i vocali» di gran moda, sono monologhi che attraversano lo spazio di un tweet senza lasciare nulla.
Lo spaesamento dell’età «incerta» definita anche «belletà» (F. Scaparro, G.P. Charmet, Belletà, Boringhieri) è rumoroso. Il disagio, anche quello fisiologico, ha più facce, nasce presto perché la pubertà arriva prima e raggiunge quei trentenni attempati che oggi mi chiedono aiuto per risolvere il loro drammatico e persistente disorientamento.
Con gli adolescenti in «carriera» prevale il tempo del silenzio familiare, non quello educativo o montessoriano, ma pieno di vuoti e di sguardi assenti, con un non-verbale che mescola domande a paura tipico degli adulti quando non sanno cosa dire ai figli. Mancano le parole parlate, quelle necessarie e i gesti autorevoli di chi dovrebbe dare esempio e non lezioni dal pulpito. L’alternativa è logorrea o mutismo. Non c’è via di mezzo!
Così l’adolescenza lunga di oggi vede giovani, apparentemente forti e invincibili, ma in realtà fragili e vulnerabili che in un nano-secondo diventano insicuri, timorosi e incapaci di gestire l’energia turbolenta ed esplosiva che nessuno insegna a controllare. Li trovi privi di desideri, senza progetti, caso mai schiavizzati dai compensi immediati dei like e fermi da qualche parte a ripetere un «boh!» insistente, sintesi estrema di un «non so che fare!».
La tristezza e l’apatia prima di essere una dimensione clinica da curare, predispone alla fuga e al ritiro dal mondo, quasi si fosse scoperto un orizzonte apparentemente salvifico. Così alcuni (ma sempre di più oggi) scompaiono fisicamente, e non per un gesto definitivo, ma si eclissano gradualmente dalla vista degli altri, non prima di aver lanciato avvisi ai naviganti più vicini che, però, non ascoltano. Altri diventano guerrieri arrabbiati e si inabissano nella violenza delle parole online o in quella fisica che attraversa strade, scuole, piazze e case familiari.
Ma quando riprenderemo un comunicare sano e un ascolto pieno e gentile che serva per aiutarli a diventare adulti in tempi canonici?