di Stefano Allievi. Sociologo del mutamento culturale. Pubblicato nel blog dell'autore il 22 agosto 2023.
Quando si sono spesi anni a fare della lotta all’immigrazione (e agli immigrati come persone) il proprio capro espiatorio, e ragione importante delle proprie carriere politiche, immaginando che dire “non li vogliamo” fosse sufficiente a farli sparire dall’orizzonte (come se si potesse dire la stessa cosa della povertà, delle spese per l’istruzione, o del maltempo, dell’inquinamento o del traffico, e questo giustificasse il non far nulla…), facendo finta di essere all’opposizione (nazionale) anche quando si è stati ininterrottamente governo (regionale, e a intermittenza nazionale) per decenni, è difficile immaginare di trovare soluzioni di gestione del fenomeno. E infatti continua a non succedere.
Per giunta, si persiste negli errori già fatti, perché non si ha il coraggio di dire che ci si era sbagliati fino ad ora, che gli slogan del passato erano fuori bersaglio e controproducenti. Un esempio è la drastica riduzione della possibilità di intervento dei SAI (i progetti di integrazione gestiti dai comuni, quelli che funzionano meglio): a cui si è deciso di impedire di accogliere richiedenti asilo, ma solo rifugiati riconosciuti, con il risultato paradossale che molti progetti accolgono meno persone di quelle che potrebbero, e le presenze in questi percorsi di inserimento sono in calo.
All’opposto, si potenziano ulteriormente i CAS (i centri straordinari di accoglienza), sciagurate strutture, anche di grandi dimensioni, di cui si riduce il ruolo. Da un lato, per fare spazio ai nuovi arrivati, con una circolare del 7 agosto, vengono invitati a cacciare gli ospiti presenti, “anche nelle more della consegna del conseguente permesso di soggiorno”, ovvero anche se i diretti interessati non potranno lavorare regolarmente, con le conseguenze che si possono immaginare; dall’altro, con il decreto Cutro, gli si toglie la scomoda incombenza di erogare i servizi di orientamento legale e al territorio, di sostegno psicologico e soprattutto di insegnamento della lingua italiana: esattamente l’opposto di quello che sarebbe necessario fare. Di fatto li si trasforma in un mero parcheggio umano di persone a cui fornire vitto e alloggio e null’altro, senza alcun progetto di intervento sensato, salvo poi lamentarsi che l’integrazione non funziona come si vorrebbe, dopo aver fatto tutto il possibile per impedirla…
Non stupisce, visto che a livello nazionale non si sa che pesci pigliare, se a livello locale si fa anche peggio. Rifiutando la presenza degli immigrati, minacciando di ‘restituire’ alla prefettura i richiedenti asilo mandati nei comuni, e continuando a raccontare che “prima gli italiani”, che bisogna prima trovare casa agli autoctoni: come se lo si facesse davvero, come se fosse una scusa ragionevole per non occuparsi d’altro (peraltro i fondi per i richiedenti asilo arrivano da altri budget e che li si accolga o meno non c’è un solo euro in più per gli italiani, semmai girano meno soldi in generale, che è uno svantaggio per tutti – non si riflette mai sul fatto che i progetti di accoglienza implicano assunzioni, stipendi, acquisti, e fanno anch’essi girare l’economia…), e come se avesse senso dire che non si può fare una cosa perché si deve fare l’altra: come se dicessimo ai nostri figli che non gli paghiamo l’istruzione perché dobbiamo già pagare la sanità…
Il paradosso è che tutto ciò avviene mentre, virginalmente, il governo scopre che abbiamo bisogno di immigrati (e apre al loro arrivo con il decreto flussi), altrimenti molte attività semplicemente chiuderanno, rendendo tutti noi più poveri. La diciamo in parole semplici, forse comprensibili anche per chi della caccia allo straniero ha fatto bandiera: meno immigrati significa meno lavoratori per imprese che, non trovando operai, chiuderanno o si sposteranno altrove (o serviranno peggio la propria clientela, ad esempio, nel settore turistico-alberghiero e della ristorazione, spingendola ad andare altrove), ma anche meno clienti a cui vendere merce (tutta: cibo, vestiario, farmaci, giocattoli, e qualsiasi cosa vi venga in mente), meno case da affittare, meno donne italiane che lavorano perché torneranno ad accudire bambini e anziani, ma anche cose meno intuitive come meno classi per le scuole (si stimano in 18.000 solo le classi elementari che spariranno da qui al 2028, che è praticamente domani).
Ma, di fronte a questo scenario, non si fa nulla per far entrare regolarmente e formare la manodopera che servirebbe. Che dovrebbe essere il compito dello stato, coadiuvato nell’accoglienza dai comuni, possibilmente con il raccordo delle regioni. Se non si preferisse l’antica pratica dello scaricabarile…