di Cataldo Intrieri. Pubblicato in Linkiesta del 22 agosto 2023.
Quando la politica arriva a chiedere la «castrazione chimica» per alcuni reati (Salvini dixit) dimentica che in Italia la giustizia è già fornita di leggi stringenti e tutele per le vittime. Il diritto penale non può risolvere un problema sociale.
Qualche giorno fa una sentenza del Gup di Firenze che ha assolto due imputati di violenza sessuale è stata oggetto di violenta polemica. Secondo le cronache il giudice non ha creduto alla versione della vittima ma ha dato credito a quella proposta dalla difesa che ha sostenuto l’erronea percezione degli accusati circa il consenso della parte offesa.
Quasi contemporaneamente da Palermo sono arrivate le agghiaccianti immagini di una violenza di gruppo contro una povera ragazza.
I due episodi associati hanno dato la stura alle consuete invocazioni di pene e leggi più severe, fino addirittura alla «castrazione chimica» proposta dal solito folcloristico Matteo Salvini.
È bene sapere che già oggi la violenza di gruppo è punita con una pena che va da otto a quattordici anni di galera, senza contare le aggravanti.
Coloro che vengono condannati per reati contro la libertà sessuale, inoltre, non hanno diritto a usufruire di benefici come le misure alternative alla detenzione in carcere per l’esecuzione della pena, se non dopo aver scontato almeno la metà della pena dietro le sbarre.
Non solo: i criteri di interpretazione delle norme che puniscono la violenza sessuale sono molto più restrittivi di quelli applicati agli altri reati. Non si deve dimenticare che il processo penale presenta una particolare procedura protetta per i cosiddetti «soggetti vulnerabili» le vittime di particolari reati o che versano in condizioni di minorata difesa per età, condizioni di salute, atti discriminatori.
La Stampa ha pubblicato una lunga intervista con la giudice di cassazione Paola De Nicola Travaglini, esperta della materia e da sempre impegnata sul fronte della tutela delle vittime, che, nel criticare la sentenza del Tribunale di Firenze prima menzionata, ha ricordato la radicata giurisprudenza della Suprema Corte in materia. Secondo la De Nicola: «La donna non deve dimostrare nulla: deve solo dichiarare cosa è accaduto e se lo ha voluto o no».
Una tale impostazione nasce dalla legittima esigenza di sottrarre le vittime di atti particolarmente gravi alla umiliante trafila di continue e pressanti verifiche giudiziarie (il cosiddetto fenomeno della «vittimizzazione secondaria»). Essi possono essere sentiti una sola volta, non in un pubblico dibattimento ma in un’udienza a porte chiuse, con l’assistenza adeguata di uno psicologo, protetti da interrogatori aggressivi, tramite il filtro del giudice.
Prevale, in tema di reati contro la libertà sessuale, una tesi che sostiene la sostanziale insindacabilità della valutazione della donna sulla sua effettiva volontaria adesione basata sul presupposto che sia onere dell’accusato dimostrare in caso di denuncia di violenza il consenso altrui. In tale ottica l’errore eventuale dell’uomo, ancorché in buona fede, è «inescusabile» sempre e comunque.
Se questo è lo stato dell’arte è lecito chiedersi se servano veramente nuove e più draconiane misure quando già esiste un «doppio» forse «triplo binario» di giudizio con una evidente disparità del rispetto delle garanzie difensive, in particolare del principio dell’«oltre ogni ragionevole dubbio» e dell’«onere della prova» che colpisce gli imputati dei reati contro la libertà sessuale rispetto ad altri cittadini sottoposti a un processo penale per delitti di diverso tipo.
Il campo del diritto penale cui troppo spesso si delega la regolamentazione dei rapporti umani, compresi quelli più intimi, non può risolvere un gravissimo problema che affonda nell’educazione sbagliata di una società. Ritenere che sia solo un problema di repressione è un rimedio peggiore del male.
sintesi di Alessandro Bruni
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