di Giuseppe Maiolo. Psicoanalista del costume e delle età della vita. Pubblicato nel blog dell'autore l'11 settembre 2023.
Nella vulgata popolare la parola «emergenza» spesso viene associata all’urgenza, alla sensazione di pericolo, e alla necessaria immediatezza delle risposte.
Emergenza viene dal verbo emergere, cioè comparire, manifestarsi, uscire dal sommerso.
Allude a ciò che non abbiamo avuto modo di vedere per impossibilità oggettive, ma anche per incapacità nostra o distrazione che può essere mancanza di cura, o vera e propria trascuratezza.
Non di rado la dimensione dell'emergenza ci impedisce di vedere la sofferenza e quel dolore nascosto che alimenta rabbia e sviluppa violenza verbale e agita.
Da qui sovente il disagio giovanile che ci sconvolge e ci sbaraglia per la mancanza di autocontrollo e per l’orgoglio della violenza con cui si giustificano spesso le proprie aberranti imprese.
L’emergenza di fatto ci rende consapevoli ma ci richiede domande, interrogativi e ci dice che il male c’era da tempo e non lo abbiamo visto o neppure ci ha preoccupato l’aumentare degli abusi su chi è più debole o fragile.
Non ci siamo resi conto di quante volte i bambini alla primaria e già bulli in erba, ci hanno detto di divertirsi spiegandoci che era solo un gioco in cui pure la vittima si diverte.
Forse non ci siamo accorti ma molti di noi hanno taciuto, a volte sorriso, oppure hanno finto di non vedere.
Questa la ragione per cui tutto rimane sotto la sabbia ed emerge apparentemente d’improvviso come violenza adolescenziale, denominata rabbia delle gang metropolitane o come stupro di gruppo che evidenzia una sessualità primitiva su cui abbiamo taciuto sia in casa che a scuola.
Per non dire del telefonino che spesso è il demonio su cui si può scaricare tutto il male della terra.
Dire emergenza invece vuol dire riconoscere che l’emerso è ciò che non abbiamo visto, è la carenza di attenzione sulla violenza diffusa delle parole adulte, o la mancanza di azioni educative e formative.
È la frequente distanza di famiglia e scuola dalle realtà giovanili, quel non sostare sulla vita e sul dolore, è il passare sopra gli eventi e ai figli o agli alunni non chiedere riflessioni né spingerli a trovare parole per dire cosa accade dentro di loro.
Sono queste lontananze che temo autorizzino un decreto emergenziale anacronistico, repressivo e violento come quello di Caivano, incapace di cogliere la realtà di questa generazione e non in grado di arginare il disagio giovanile.
Penso non possa essere funzionante il contenimento della violenza che si sviluppa sulla cultura della punizione.
Non si educa con la repressione, men che meno si rieduca con il carcere minorile come da anni sostiene Don Mazzi che insiste sulla necessità di trovare soluzioni alternative.
Non serve incolpare i social e pensare di risolvere i rischi della rete togliendo i cellulari fino a 14 anni.
È demenziale o quanto meno illusorio immaginare che il bullismo si elimini senza prendere in considerazione la prevenzione che passa per l’educazione digitale necessaria fin dalla scuola primaria se non dell’infanzia, e la formazione degli adulti di riferimento, quasi completamente analfabeti.
È inaccettabile un decreto emergenziale che non spende una parola per promuovere progetti di recupero e si accetti che i protagonisti delle violenze siano chiamati «bestie» senza che nessuno abbia un sussulto!