di Marcello Veneziani. Filosofo, giornalista, scrittore. Pubblicato nel blog dell'autore e in La Verità il 28 agosto 2023.
Il mondo al contrario e i suoi nemici. Proviamo a leggere la contesa tra i due mondi come se fossimo osservatori esterni. Da una parte vige la dominazione woke, sintesi del politically correct, della cancel culture e del bigottismo progressista e dall’altra vive il mondo reale, naturale, normale cioè comune.
Come spiegare il conflitto uscendo dalle polemiche e dalle invettive? È la guerra tra nuovi e vecchi pregiudizi: questi derivano dall’esperienza e dal senso comune, consolidato nel tempo, quelli derivano dai cambiamenti e dall’ideologia del cambiamento che reputa positivo ciò che muta. I pregiudizi del primo tipo si possono definire conservatori o tradizionali, e attengono a un patrimonio di pratiche, sentimenti, culture, il cui uso consolidato e universale ci fa percepire come naturali, giusti, normali. I pregiudizi del nuovo tipo invece reputano negativo ciò che persiste nella propria identità e difende le tradizioni e giudicano positiva ogni emancipazione da quei contesti, ogni rovesciamento e fluidità.
I pregiudizi del primo tipo sono prevalentemente popolari, attengono a un comune sentire tramandato, che s’intreccia alla vita reale dei popoli e ai loro legami famigliari, civili e religiosi da più generazioni. E tutto questo si pone come “naturale”. I pregiudizi del secondo tipo, invece, sono minoritari, se non elitari, attengono a minoranze, ideologie e scelte che contrastano o dissolvono i rapporti pre-stabiliti e tutto ciò che viene definito naturale.
La mistificazione corrente è ritenere che i primi siano pregiudizi, derivati da superstizioni, ottusità, rigidità, oscurantismi, mentre i secondi siano giudizi maturi, critici, evoluti. E invece no, sono pregiudizi ambedue, e non solo nella connotazione negativa che solitamente diamo alla parola pregiudizio, ma in un’accezione più ampia e asettica: i pregiudizi sono giudizi che non si formano nella nostra mente che precedono i ragionamenti e che ereditiamo dall’ambiente circostante, dalle generazioni precedenti, dalla vita dei popoli o da alcune minoranze egemoni – élite, oligarchie, sette, fazioni – o sono prefabbricati dalle agenzie ideologiche e comunicative dominanti in questo tempo.
Che i pregiudizi siano necessari alla società non lo dicono solo autori conservatori, come Burke o de Maistre, o conservatori più recenti come Roger Scruton, ma anche filosofi ermeneutici come Hans George Gadamer. Ma primo tra tutti lo diceva Giambattista Vico quando sottolineava l’importanza del verosimile e del senso comune : quando non si possiede il vero, attenetevi al certo. Le superstizioni, per Vico, non sono nocive idiozie oscurantiste, ma come dice la parola stessa, sono tranci superstiti di antiche certezze. E citando Plutarco, il filosofo napoletano diceva che con la superstizione sorsero luminose nazioni, mentre dall’ateismo – oggi diremmo dal nichilismo cinico – non ne è sorta mai nessuna.
Come sopravvivere a una società divisa tra pregiudizi opposti e insormontabili, c’è una possibile mediazione o perlomeno un patto, una tregua per garantire la convivenza senza rinunciare ciascuno alle proprie convinzioni? Il problema è doppio: distinguere da una parte tra i pregiudizi e i giudizi, che necessitano di senso critico; e dall’altro distinguere tra i pregiudizi e la realtà evidente e storicamente radicata. Faccio due esempi calzanti nei nostri giorni.
Riconosciuta la libertà di vivere nella sfera privata secondo le proprie scelte purché non danneggiano gli altri, si possono poi avere valutazioni e priorità diverse nella sfera pubblica. Ma non si può pretendere di imporre i propri pregiudizi agli altri e condannare i pregiudizi altrui all’infamia, alla gogna e all’espulsione. Si può discutere se una società debba tutelare o no prima la famiglia naturale o tradizionale rispetto alle altre nuove unioni, o se debba equipararle in tutto e per tutto, e ci si può dividere su queste divergenze; ma non si può capovolgere la realtà al punto di ritenere quasi un reato, comunque un’infamia, definire per esempio normali le coppie naturali e tradizionali e diverse le coppie omosessuali. Lo sono rispetto alla procrezione, ai millenni precedenti, alla civiltà di cui siamo figli, alla maggioranza delle persone. Salvo poi garantire anche i diritti dei diversi.
Altro esempio: larga parte della società considera chi entra in un paese senza permesso, come un clandestino, come d’altronde ha sempre sancito il diritto internazionale e ogni ordinamento nazionale: poi si può discutere tra chi avversa gli ingressi abusivi di massa e chi invece tende a giustificarli nel nome della solidarietà. Ma non si può capovolgere la realtà al punto da ritenere un reato non la clandestinità ma il chiamare clandestini coloro che effettivamente lo sono. Noi siamo ormai in questa fase e questo spiega il divorzio clamoroso tra le opinioni delle élite e della gente (vedi il boom del libro di Vannacci o il successo di Trump sotto processo).
Lo sforzo che si richiede ad ambo i versanti è di riconoscere che viviamo in una società conflittuale ed esistono almeno due visioni contrapposte, che dobbiamo sforzarci di riconoscere, pur continuando legittimamente ciascuno a sostenere la propria. E stabilire un perimetro di contesa, dove è lecito nutrire tesi diverse, senza arrivare alla scomunica dell’avversario. Ma partendo dalla realtà, tenendo conto dell’esperienza dei popoli, della natura come dei mutamenti sociali. Si possono avere interpretazioni diverse, adottare diversi comportamenti e preferire soluzioni divergenti. Possono differire i giudizi, ma non si può negare l’evidenza della realtà; si può criticare l’avversario ma non lo si può offendere o negargli il diritto di esprimere le sue opinioni e le sue preferenze.
So che a dirlo è più facile che a farlo. Ma partire almeno da un atto di reciproco riconoscimento, senza rinunciare alle proprie convinzioni e quel che riteniamo essere il bene comune, è il fondamento di una civiltà prima che di una libera democrazia. Parole al vento, ma vanno dette e sparse…
Commento di Alessandro Bruni. Fatico ad accettare le tesi di Veneziani espresse nella prima parte di questo articolo, ma convengo nella insensatezza degli stereotipi di destra e di sinistra, di tradizione e di modernità. Riporto volentieri il pensiero di Veneziani nel blog per rispetto delle idee e delle opinioni altrui. Anzi, perché ascoltare gli altri e misurarsi con il loro sentire non è solo democrazia, ma fermento e verifica delle proprie opinioni. Bisogna ricordare, tuttavia, che tutti gli aspetti sociali hanno bisogno di tempo per essere metabolizzati e maturati, ma al contempo un conservatorismo o un modernismo chiuso ad ogni riflessione non è solo pregiudizio, ma è anche generatore di intolleranza sociale (caratteristica storica precipua più del conservatorismo che del modernismo). Personalmente su questo punto quanto Veneziani scrive mi pare debole, ma degno di essere ragionato e valutato con rispetto. Tuttavia, percepisco nell'articolo un ammiccamento all'intolleranza (un fatto concreto o un mio pregiudizio?) che per me è sempre negativo, da qualsiasi parte esso venga. Nel finale di questo post (evidenziato in giallo) Veneziani sembra riaggiustare il tiro ed esprimere una conclusione sopra le parti, ma sembra una glassa coprente su una torta stratificata (conservatorismo/modernismo) in cui gli ingredienti non sono ben amalgamati dalla tolleranza. Il punto è che nell'agito quotidiano, nel rispetto dell'altro, è come nel calcio: il pregiudizio dei tifosi è regolato dalla maglia, mentre la partita dovrebbe essere valutata dal bel gioco espresso da entrambe le squadre. "Parole al vento, ma vanno dette e sparse…".