di Luca Sofri. Giornalista. Pubblicato nel blog dell'autore in Wittgenstein il 12 Settembre 2023.
«Abbiamo bisogno di strumenti principalmente culturali», ha scritto oggi sulla Stampa la giudice Paola Di Nicola Travaglini, riferendosi ai magistrati e a proposito della distorta idea della legge trasmessa dal pubblico ministero di Brescia che ha chiesto l’assoluzione per un uomo accusato di violenze – confermate dal pm stesso – nei confronti della moglie.
Bisogna «investire in istruzione. Ma non l’investimento privato, individuale, bensì quello pubblico, collettivo»: dice poi il commento della sociologa Marianna Filandri proprio nella stessa pagina, dedicato però ai fallimenti dell’educazione scolastica.
È così impressionante l’ovvietà delle soluzioni alla gran parte dei problemi contemporanei, e la sterilità della loro ripetizione, del loro affollamento, che ci si sente noiosi a parlarne ancora. Lo farò brevemente, quella volta ogni paio d’anni o forse più. Aggiungo ancora una citazione per confermare ulteriormente quanto sia ovvio e condiviso il percorso, quanto valga per ogni cosa, e quanto sia quindi evidentemente impraticabile, se no già l’avremmo praticato. Dalla newsletter di Michele Serra di questa settimana:
A proposito di baby gang e criminalità giovanile ho condiviso al cento per cento quello che ha scritto Massimo Ammaniti, neuropsichiatra infantile e psicoanalista illustre, su Repubblica. Mia estrema sintesi del suo intervento: reprimere lascia il tempo che trova, non incide per davvero, è un intervento superficiale. Perché per andare alla radice del problema sarebbe necessario un lungo lavoro di risanamento sociale e di cura individuale. Servono insegnanti, assistenti sociali, psicologi, carceri che rieduchino e non abbrutiscano. Servono dignità e decoro nei posti dove si abita e dove crescono i futuri adulti.
Sappiamo tutti che nessuno dei grandi problemi che possiamo con realismo desolato chiamare a questo punto “declino dell’Italia” può essere affrontato mettendo delle pezze – assai poco resistenti, peraltro – sulle tante falle con cui questo declino si mostra. Né privilegiando la repressione sull’educazione. Gli esempi qui sopra sono evidenti: qualunque grossa questione è culturale, e in origine è persino una questione di relazione con la convivenza e il senso di comunità di questo paese, relazione che non ha mai raggiunto una completezza soddisfacente malgrado i notevoli progressi dell’unità d’Italia, della liberazione dal fascismo, e della Costituzione democratica.
Nella cosa più importante, il senso di comunità, il rispetto e la complicità con le altre persone, siamo sempre rimasti indietro. Ma quello che è cambiato, nell’ultimo decennio in particolare, è l’inversione di un percorso di faticoso e difficile progresso in questo senso, o almeno la percezione che questo percorso esistesse e che avesse delle prospettive, e una partecipazione motivante. E la sua trasformazione in un arretramento, persino: passi indietro invece che avanti.
Le ragioni di tutto questo sono diverse, e alcune non riguardano nemmeno solo l’Italia. Ma sono tutte infiltrate da una tendenza indiscutibile e catastrofica: il disinvestimento sull’educazione, dove con educazione si intende ogni forma di aumento della conoscenza e di crescita culturale, dalla scuola, all’informazione adulta, allo scambio di conoscenze, alla discussione pubblica basata sul rispetto civile e sull’ambizione di un progresso comune, alla fiducia nel metodo scientifico.
Questi strumenti sono stati progressivamente delegittimati dal saldarsi di due gravi e solidali responsabilità: da una parte quella di una classe dirigente (e intendo chiunque si impadronisca di occasioni di comunicazione più potenti, anche dall’oggi al domani) che ha predicato e praticato per ragioni demagogiche e di costruzione di potere personale una propaganda di senso contrario, demolendo la conoscenza come valore, demolendo la cultura come attributo e strumento, demolendo la convivenza e il rispetto come priorità e obiettivi cristiani e civili, demolendo valori illuministi, democratici e progressisti come principi condivisi, demolendo la crescita morale e personale come strumento di gratificazione.
E dall’altra la responsabilità di tutti noi che abbiamo ceduto a questi messaggi, nel contesto di un mondo nuovo che ha invece motivato – attraverso strumenti e scenari altrettanto nuovi – alla promozione vanitosa di sé, alla competizione col prossimo, alla frustrazione e al vittimismo, al risentimento e alla divisione. Non al “narcisismo”, parola abusata e buona per tutto: all’egoismo, proprio, e al suo sdoganamento.
In sintesi, stavamo faticosamente lavorando – come paese e come civiltà – a estendere il più possibile un proficuo senso della vita e del bene comune presso tutti noi abitanti di questo paese e di questa civiltà, e le cose hanno preso una piega opposta, da cui discende il pessimo stato di gran parte di quello che vediamo intorno (pur vedendo, nel frattempo e altrettanto vicine, un’enorme quantità di persone brave ed eccezionali, di potenziale, di meraviglie della convivenza civile, di bellezza e di amore, persino).
Inciso: posso sbagliare, e il ciclo che ho appena esposto si ripete invece in relazione alle età e alle speranze di ognuno, di generazione in generazione. Questo era Ferruccio Parri nel 1972, sulla sua maggiore delusione.
«Mah, il popolo italiano, ecco. È la cosa che mi pesa di più. Man mano che mi sono fatto una conoscenza più profonda del popolo italiano, ho toccato i suoi aspetti di scarsa educazione civile e politica. Mi riferisco alla parte prevalente del Paese, non a tutto il Paese. Questo rafforzarsi costante del mio pessimismo, questa constatazione progressiva della non rispondenza della maggior parte del popolo è una delusione forte per uno che ha sempre ritenuto e ritiene di dover fare qualcosa per la vita pubblica».
Però a me sembra che un cambiamento ci sia stato, da un’idea politica che aveva così caro il popolo da volerlo togliere dall’ignoranza a una che quell’ignoranza la difende e celebra. Fine dell’inciso.
Tutto questo si inverte soltanto con gli strumenti esposti dalle citazioni iniziali, e da altre migliaia di articoli di commento e di editoriali che abbiamo letto o che leggeremo. Ma la loro sfinente ripetizione non fa che mostrare quanto siamo lontani dal muoverci in quella direzione. Chi ha il potere di farlo ha tutt’altre intenzioni, e non è solo o sempre una questione di facili demarcazioni politiche. Chi predica queste stesse buone cose in ambiti politici e istituzionali non è stato capace di convincerne abbastanza elettori, e pure questa è una responsabilità grave.
Quindi, per concludere: sì, serve un lavoro culturale, un investimento nell’educazione più che nella repressione, nell’insegnamento dell’etica quotidiana, nell’educazione-delle-masse (lo dico con sprezzo della cattiva fama dell’espressione: le masse siamo tutti) e di costruzione di un senso del bene comune, della collaborazione, e addirittura del patriottismo (un patriottismo vero e contemporaneo, di comunità, non quello divisivo e ringhioso predicato a destra). Nient’altro ci salverà, come paese. Ma a chi lo stiamo ripetendo?