di Massimo Mantellini. Giornalista e scrittore romagnolo. Post scelti da Alessandro Bruni dal blog dell'autore nell'ottobre 2023.
Va detto. Un Paese che dovendo scegliere per una volta un nome e un cognome sceglie nettamente Adriano Galliani e non sceglie Marco Cappato è un Paese che – va detto – non ha nessuna possibilità di farcela. Da nessun punto di vista e per sempre.
I padri nobili. Il gigantesco lavoro di disinformazione, più o meno involontaria, che i media italiani hanno messo in piedi da anni, sia quello affidato alle strutture giornalistiche vere e proprie (da tempo lottizzate dai partiti e messe nelle mani dei peggiori) sia, soprattutto, quello più sfumato dei talk show televisivi, affidato a sedicenti “giornalisti” che fingono di informare apparecchiando ogni sera un teatrino di opinioni contrapposte utile ad aizzare la contrapposizione (la contrapposizione violenta dei punti di vista è l’unico valore economico apprezzato da quelle parti), ha una caratteristica notevole che lo rende inaffondabile. I suoi protagonisti, le decine di Gruber e Formigli, Porro e Berlinguer che lo conducono ne escono limpidi, stimati e senza responsabilità. Affondano il paese, per quello che li riguarda, fingendo di essere gli arbitri della discussione pubblica mentre sono invece quelli che, più di altri, la offendono.
Gustin il guaritore. Nella cittadina di mare in cui vivo un’amica mi ha raccontato la storia di uno strano guaritore, vissuto nella seconda metà del secolo scorso. Il guaritore, che tutti in paese conoscevano, se non altro perché era l’ex portiere dell’ospedale, ebbe un periodo di notorietà un po’ di anni fa, quando iniziarono a giungere a lui ammalati e questuanti da tutto il circondario.
Ho cercato sue notizie in rete senza successo: la sua fama, nata, cresciuta e poi spentasi in epoca pre-digitale, è conservata nei ricordi analogici di pochi anziani. Il guaritore, che tutti chiamavano Gustin (Gustin è l’abbreviazione di Agostino in dialetto romagnolo), mescolava elementi religiosi e doti da pranoterapeuta, in un sincretismo per niente inusuale e di grande presa. Sono venuto a sapere di lui per caso: ai margini del centro abitato sono tuttora rintracciabili la villa un po’ pretenziosa che Agostino si era fatto costruire, nel cui giardino si dice ospitasse anche animali esotici e la base in cemento di un’enorme croce che aveva fatto erigere giusto accanto alla trafficata strada statale. Qualche centinaio di metri più in là, camminando verso il mare, si trova un altro edificio ormai abbandonato a lui riconducibile: una costruzione che assomiglia in tutto a una chiesa, con tanto di rosone sulla facciata e una specie di grande cappella votiva affacciata sulla strada.
Nell’epoca della trasformazione digitale e della vorticosa trascrizione nei nuovi formati di tutto ciò che era precedente, le uniche cose che restano della vita di Gustin, un uomo di una qualche notorietà vissuto solo qualche decennio fa, sono alcuni manufatti in calce, mattoni e cemento armato. Negli ambienti digitali non è che le cose vadano tanto diversamente. Tramontata l’illusione secondo cui Internet sarebbe diventata la memoria del mondo, la sua più ampia biblioteca, da quelle parti i dati continuano ad accumularsi. Mentre questo avviene, dietro ai nostri occhi, silenziosamente, moltissimi altri dati digitali scompaiono. Per ragioni tecniche, per incuria, molto spesso perché le motivazioni economiche che avevano convinto qualcuno a mantenerli sono alla fine venute meno. Non si tratta solo del pulviscolo delle nostre trascurabili comunicazioni social: numerosissimi link a materiale scientifico disponibile in rete dopo pochi anni smettono di funzionare.
Anche la retorica della registrazione del tutto come chiave storiografica di lettura del mondo non se la passa troppo bene: i social network, dopo solo un paio di decenni dalla loro nascita, mostrano oggi i segni di una grande stanchezza. Nel frattempo le parole di chi era passato da quelle parti e ora non c’è più restano accessibili sui loro profili social; su alcune piattaforme come Facebook, frequentata in Occidente prevalentemente da “anziani”, il fenomeno si mostra in tutta la sua evidenza e nuove forme di lutto prendono forma.
La persistenza digitale delle parole di chi è morto suggerisce l’idea che oggi nulla scompaia, che tutto ciò che diremo resterà per sempre. Che esista, insomma, un simulacro di eternità digitale a portata di mano. È abbastanza probabile che non sia così. È abbastanza probabile che l’oblio si disinteressi anche questa volta dei nostri piani per ostacolarlo. Memorie e ricordi negli ambienti digitali sono certamente molto visibili, specie per quelli che saranno interessati a trovarli: le foto e le parole delle persone che abbiamo conosciuto e che non ci sono più ci colpiranno in modo particolare, i loro messaggi in chat, le mail che ci eravamo scambiati, le pagine social ancora attive.
Ma per quanto? E per quale ragione? Chi ne sarà il custode e perché dovrebbe continuare una simile manutenzione? Cosa ne sarà di Gustin e dell’enorme croce che fece innalzare accanto alla statale Adriatica? Che fine hanno fatto le zebre che aveva in giardino? È come se memoria e oblio si comportassero allo stesso modo, negli ambienti analogici come in quelli digitali. I piccoli resti di una “architettura geometrile” – come direbbe Gianni Celati – accanto alle tracce digitali sempre più labili della nostra esistenza in vita. Entrambi, l’analogico e il digitale, a ricordarci che non potremo vincere: che il nostro destino, più che ricordare tutto, sarà più facilmente quello di continuare a dimenticare molto.
Basita. Giorgia Meloni è basita per il Nobel della medicina a Karikò e Weissman. Non tanto per i due scienziati, di assoluto valore – ammette – ma per alcuni passaggi nell’utilizzo della trascriptasi inversa ricombinata nella produzione in vitro dell’mRNA sintetico che non la convincono appieno.
Chi sono, scritto da lui
Rileggo dopo molti anni questa pagina che nel frattempo è invecchiata con me. Un po’ me ne vergogno così la aggiorno. Sono nato a Forlì nel 1961. Ho fatto molte cose in rete negli ultimi tre decenni e ora, che me ne sono un po’ stancato, non le faccio quasi più. Ho scritto di cultura digitale un po’ ovunque: ora molto meno. Del resto schiodarsi di dosso l’etichetta di esperto di qualcosa è sempre difficile. Parafrasando N.G. anche l’esperto, prima o poi, si annoia. Ho scritto un po’ di libri ai quali voglio bene e dei quali ogni tanto parlo. Anche se poco. Ho una famiglia alla quale voglio bene e tanto basta. Ho chiuso tempo fa (sempre troppo tardi) con i social network. Lo so, come biografia è un po’ poco, ma del resto nemmeno io vi ho chiesto niente.
Cosa ha scritto di significativo di recente secondo Alessandro Bruni
Massimo Mantellini. Invecchiare al tempo della rete. Einaudi 2023. Focus senilità
Nel dicembre del 1968 Natalia Ginzburg scrisse un breve saggio intitolato La vecchiaia. Ginzburg a quei tempi aveva 52 anni e tutto il testo è attraversato da un doppio tono: quello profetico, una sorta di manualistica sentimentale su come salvarsi, su come provare a non diventare vecchi dentro un percorso ineluttabile, e quello legato all'accettazione dolorosa della propria decadenza connessa al tempo: un tempo implacabile, che sarà uguale per tutti. Le parole della scrittrice rimangono parole del secolo scorso, fuori da qualsiasi schema digitale, e il digitale è invece la grammatica di questo tempo. Lette oggi restano intatte nella loro bellezza e profondità ma reclamano alcuni aggiustamenti e qualche nuova domanda. Come si diventa vecchi oggi? Nessuno è diventato vecchio su internet, almeno finora. Sono passati venticinque anni da quando tutto è cominciato e la rete ha avvolto le vite di molti. In ogni caso, ovunque nel pianeta, e ogni giorno di piú, le persone invecchiano su internet, dentro un luogo differente da quello in cui invecchiavano prima. Una landa inedita, in buona parte inesplorata.