di Vittorio Bassan. Pubblicato in Ellissi del 6 ottobre 2023.
Togli la pubblicità. Metti la pubblicità. Togli la pubblicità. Metti la pubblicità.
In un lungo articolo pubblicato su La Stampa di giovedì, Jonathan Safran Foer riflette sulla nostra relazione con la tecnologia.
La società in cui viviamo, argomenta lo scrittore americano, tende a offrirci una narrazione falsata del concetto di progresso, che ci viene spesso raccontato come una forza motrice innata, impossibile da fermare. In questo scenario «andare avanti» è l’unica opzione che abbiamo, e ogni prossima tecnologia sarà quella che «cambierà tutto». Nel pezzo, Foer si pone una domanda tutt’altro che sbagliata, che potrei parafrasare in questo modo:
- Tutte queste promesse di progresso, questi canti di salvezza tecnologica, rispondono davvero a bisogni umani concreti?
- Oppure sono le aziende tecnologiche a indurre in noi determinate necessità, per proprio tornaconto commerciale, creandole a tavolino?
Foer sembra sostenere questa tesi: infatti, scrive, sempre più spesso ci troviamo costretti a cercare soluzioni tecnologiche per risolvere problemi tecnologici — questi ultimi causati dalle stesse società che ci vendono le prime, ovvero le big tech. È un cortocircuito, insomma: «stiamo creando la malattia e la chiamiamo cura».
Leggere le riflessioni di Foer è interessante, soprattutto considerando quello sta succedendo in queste settimane attorno ai modelli di business delle piattaforme social. Le quali, dopo avere perfezionato per due decadi un modello pubblicitario basato sull’estrazione e lo sfruttamento dei nostri dati, ora sembrano volerci offrire una via d’uscita. Per la prima volta nella loro storia, infatti, app come TikTok, Instagram e Facebook (ma anche X) stanno pensando di introdurre dei piani a pagamento che ci permetteranno di navigare senza pubblicità.
Queste opzioni ad-free non saranno, però, tutte uguali.
Per TikTok, l’introduzione del piano “zero pubblicità” - in fase di test a 4,99€ al mese - sarebbe un tentativo di diversificare il proprio modello di business. Per Facebook e Instagram si tratterebbe invece di una scelta più politica: i social di proprietà di Meta hanno bisogno di accontentare i regolatori europei.
L’azienda era stata multata a gennaio per avere sottoposto i propri utenti alla pubblicità targettizzata senza avergli chiesto il permesso. Grazie all’introduzione di un piano a pagamento, Meta pensa di poter sistemare le cose agli occhi dei regolatori:
«Se vuoi la pubblicità ti becchi anche il targeting; se non vuoi la pubblicità, paghi».
Questo, in sintesi, il senso dell’operazione. E se decidi di pagare, sappi che ti costerà caro. Secondo quanto rivelato da Reuters, il prezzo della subscription ad-free di Facebook e Instagram dovrebbe assestarsi attorno ai 10 euro. Non si tratta chiaramente di un prezzo popolare, ma è normale: Meta non ha alcun interesse a far sì che i suoi utenti scelgano il nuovo piano a pagamento. I nostri scroll, like e swipe sono ben più remunerativi di così, e Meta non vuole perdere nemmeno una goccia dei $113 miliardi di ricavi che ottiene ogni anno dalla pubblicità.
Ad ogni modo Zuckerberg, io credo, non ha nulla di cui preoccuparsi. È vero che gli adv sono invasivi e fastidiosi, ma quanti pagheranno per qualcosa che è sempre stato gratis?
{Piccolo inciso. Ti ricordi il vecchio motto di Facebook, «è gratis e lo sarà sempre», poi rimosso qualche anno fa?}
Si riporta a complemento quanto pubblicato da Charlie del Post l'8 ottobre 2023.
Il quotidiano Domani ha pubblicato un articolo sulla difesa di uno spot dell’Esselunga da parte di Matteo Salvini, attuale ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti e leader della Lega. Lo spot in questione è stato molto discusso, si intitola “La Pesca” e ha come protagonisti una bambina e i suoi genitori separati o divorziati. Salvini ha pubblicato un post in cui fa la spesa in un supermercato della catena: questo, secondo Domani, lo renderebbe tra l'altro colpevole di fare pubblicità illecita, dal momento che Salvini è ancora un giornalista iscritto all’albo come professionista.
Tralasciando il caso specifico (è un po' forzato definire "pubblicità" quel post, che si esclude sia stato retribuito), è utile capire come è regolata e limitata la partecipazione retribuita a pubblicità da parte dei giornalisti. Nel “Testo unico dei doveri dei giornalisti” (testo che comprende le regole deontologiche che i giornalisti sono tenuti a seguire) all’Articolo 10 si parla dei “Doveri in tema di pubblicità e sondaggi”:
Il giornalista:
a) assicura ai cittadini il diritto di ricevere un’informazione corretta, sempre distinta dal messaggio pubblicitario attraverso chiare indicazioni;
b) non presta il nome, la voce, l’immagine per iniziative pubblicitarie. Sono consentite, a titolo gratuito e previa comunicazione scritta all’Ordine di appartenenza, analoghe prestazioni per iniziative pubblicitarie volte a fini sociali, umanitari, culturali, religiosi, artistici, sindacali.
Negli anni ci sono stati diversi casi controversi. Uno ha riguardato Gad Lerner e Vittorio Feltri ed è forse tra i più noti: nel 2003 furono fotografati insieme per fare pubblicità a un marchio di abbigliamento, mentre nel 2006 girarono degli spot per una marca di biscotti mentre prendevano un tè insieme. Entrambi giustificarono la loro scelta dicendo di aver devoluto in beneficenza i compensi ricevuti: criterio che però - a meno di non forzare molto quel "volte a fini" - non è previsto come discriminante nelle regole deontologiche, alla cui base c'è il rischio di perdita di indipendenza e di credibilità del giornalista, piuttosto che quello del suo arricchimento personale.